Per chi avrà il coraggio di superare l’inutile ed eccessivo ricorso al linguaggio specialistico e settoriale, il libro di Vito Teti “La restanza” (Einaudi, 13 euro) offrirà interessanti ed intelligenti spunti di riflessione. Non solo a livello individuale ma anche, e soprattutto, a livello politico. Restanza, un termine che deriva dal pane rimasto. Da riutilizzare, ovviamente, non da buttare. E restanza di coloro che non vogliono abbandonare i loro luoghi di origine, a volti ridotti ai minimi termini con poche famiglie o addirittura pochissimi individui.
Quelli che restano contrapposti a quelli che se ne vanno. In fuga? Non necessariamente. Teti fa riflettere sulla contraddizione tra chi se ne va senza mai abbandonare – mentalmente e sentimentalmente – il proprio paese e chi, al contrario, resta ma sognando realtà diverse che, comunque, servono a rendere vivo il paese attraverso un continuo mutamento.
In entrambi i casi, però, le radici restano fondamentali. Radici culturali che si tramandano nelle famiglie ma che restano presenti anche nei muri delle case, nei vicoli, nelle fontane. Memorie che restano vive persino nei paesi abbandonati completamente. Ma per far davvero vivere e rivivere i paesi non basta l’alibi della bellezza che salverà il mondo. La bellezza deve essere aggiornata, tenuta viva. “La tradizione non consiste nel conservare le ceneri ma nel mantenere viva una fiamma”, scriveva Jean Jaurès. Però è la fiamma di questi paesi, della loro storia antica che deve essere mantenuta viva.
Senza scadere nella stupida rincorsa di una modernità che è solo squallida ricerca di una soddisfazione immediata ed imposta dalle mode. Partendo dal cibo con il racconto di false tradizioni del tutto scollegate dalla realtà passata. O con l’assuefazione alla narrazione politicamente corretta che impone il recupero dei paesi attraverso l’inserimento dei migranti la cui storia nulla ha in comune con quella dei luoghi che andrebbero a colonizzare. Perché se Teti ha ragione quando critica l’arrivo di estranei che vanno a restaurare e ad abitare paesi abbandonati, in quanto estranei alla cultura del posto, non si capisce perché il discorso non valga con gli schiavi fatti arrivare dall’Africa profonda. Si possono inserire nuovi arrivati, ma all’interno di un contesto vivo che trasmetta la cultura locale, non che si adegui alla cultura estranea.
Se la restanza è un valore, e lo è, è un valore per tutti. Ma va sostenuto, aiutato a farsi realtà, a farsi carne e pietre. Difficile che basti, per mantenere in vita un paese, organizzare corsi di teatro e danza tradizionale destinati a giovani che dovrebbero ricevere proposte di lavoro sul territorio. Perché, una volta terminata l’esibizione artistica, il lavoro che manca continua a spingere verso la partenza.

Un esempio, in senso opposto, arriva da Elva, paese piccolissimo sulle Alpi occitane piemontesi. Luogo estremamente marginale, per definizione. Ma che diventerà un polo di attrazione per l’intero territorio portando in alta quota non i corsi di danza ma quelli universitari. Puntando su una cultura che crei lavoro, una istruzione universitaria per un’agricoltura alpina moderna. Restanza vera, realizzata.