La poesia non è fatta solo di rime e strutture metriche. È fatta soprattutto di emozioni, passioni, moti dell’animo che scaturiscono da persone fuori dal comune che riescono a dire e, di conseguenza, a mettere nero su bianco qualcosa che li coinvolge e contemporaneamente cattura il sentire di altri.
Detto così assomiglia molto all’amore, alla “corrispondenza di amorosi sensi” di foscoliana memoria. Ma non sempre questa scintilla di passione scocca grazie all’uso dei versi. Qualche volta può succedere anche con un testo in prosa, se non addirittura con un romanzo.
È il caso di “Una scimmia in inverno” di Antoine Blondin (pp. 174, € 20,00) recentemente riproposto nell’ottima traduzione di Vittorio Viarengo dalla casa editrice Settecolori di Milano.
Il libro uscì in Francia nel 1959 e fu tradotto e pubblicato in Italia nel 1963 a cura dell’encomiabile Alfredo Cattabiani, prima che quest’ultimo diventasse il mentore delle edizioni Borla prima e della Rusconi poi.
Ma quel testo venne pressoché ignorato dalla critica di casa nostra malgrado in patria avesse vinto premi importanti tra i quali il prestigioso Interallié.
In un paesino della Normandia, ancora squassata dalla recente invasione americana e dalla guerra, arriva il giovane Fouquet e prende alloggio in un piccolo albergo condotto da Albert Quentin e dalla moglie Claire. Apparentemente non esiste un motivo plausibile perché Fouquet si trovi lì. Ma a breve si scopre che in un collegio vicino vive sua figlia, abbandonata dai genitori e che si crede orfana.
Il protagonista è un alcolista incallito, che ha distrutto la sua vita, non solo familiare e coniugale, per rincorrere un sogno. Per lui il bere non è un vizio, ma il tentativo di dare una via d’uscita a un’esistenza senza scopo, un modo per colorarla e ridarle un senso più autentico.
Quentin si rivede e si riconosce in lui. Anche l’albergatore ha avuto in passato esperienze di dipendenza; ora ne è uscito, ma il suo rapporto con Fouquet scivola piano piano dal distacco al coinvolgimento; proprio come fa la poesia che si trasmette da chi scrive a chi legge.
Naturalmente c’è molto di autobiografico nei personaggi principali della storia. Anche Blondin ha attraversato la valle buia della dipendenza e riesce così a trasmettere con una prosa asciutta del tutto antiretorica il crogiolo di sofferenze, passioni, sogni e attese che lo travagliò nel corso della sua esistenza. Un’esistenza che fu anche di successo, tanto che, come ricorda Massimo Raffaeli nella prefazione, ebbe a vincere più premi rispetto ai libri che scrisse. Un successo rinforzato dal clima culturale dell’epoca che vedeva l’Esistenzialismo letterario fare la parte del leone. Un movimento al quale, però, Blondel non volle mai aderire, malgrado ne risentisse fortemente il clima.
Arricchisce il volume un saggio di Stenio Solinas, che è diventato uno dei più importanti collaboratori della casa editrice milanese, presso la quale uscirà in autunno una sua importante raccolta di saggi.
E merita una menzione particolare la cura editoriale con la quale il volume è stato realizzato, segno che c’è ancora qualcuno consapevole che un libro deve essere prima di tutto un bell’oggetto da tenere in mano, da sfogliare e (senza tema di passare per feticisti) annusare.
Un bel volume, poi, si conserva: comunque e con piacere. Un libro brutto e mal stampato non lo si butta nella spazzatura, come si farebbe con il quotidiano del giorno prima, solo per pietà.