Georges Simenon diceva di amare la scrittura semplice. Essenziale e concreta. Come la gente comune, la gente piccola… quella che incontrava nei bistrot, bevendo una birra o un pastis. Esattamente come è solito fare il suo Maigret.
Era un grande scrittore. Non solo per i romanzi polizieschi, incentrati sul famoso commissario. Scrittore fluviale, rapidissimo ( una volta, per scommessa, scrisse un intero romanzo in una giornata… ed è un buon romanzo) ha lasciato un’opera omnia colossale. E venduto milioni di copie. Ma non è mai stato considerato… letteratura. Lui stesso, per altro, si divertiva a definire semi-letteraria una parte della sua produzione.

D’altronde quella era la Francia del, cosiddetto, anti-romanzo, di Robbe-Grillet. Astruso. Dalla scrittura aggrovigliata. L’idea di una letteratura per pochi iniziati. Che escludeva tutti gli altri. La gente comune. Quella di cui Simenon si sentiva parte. E da cui traeva spunti e ispirazione. Basta leggere romanzi come “Il lungo uomo nero”, o indagini quali “Il porto delle nebbie” e “La casa dei fiamminghi” per rendersene conto.
Per altro, la scrittura semplice, immediata, essenziale… è arte ardua. Difficile. È necessario avere una assoluta padronanza della scrittura per essere semplici. Solo i veri, grandi scrittori sanno essere semplici. Perché distillano le parole. Il loro pensiero, ciò che vogliono narrare, diviene limpido. Cristallino. Attraverso un, paziente, lavoro di filtri.
Dante è semplice. Potrà sembrare paradossale, ma la sua scrittura è semplice. Essenziale. Utilizza un numero di parole, tutto sommato, limitato. E molte espressioni vengono dal parlato. Dal fiorentino corrente, come scrive di lui Machiavelli. Altro maestro, in prosa, di semplicità. Asciutto e secco. Per questo così chiaro ed incisivo.
Nella nostra epoca, però, si tende a considerare colto ciò che è oscuro. Contorto e incomprensibile. Come quella vecchietta che, tanti anni fa, all’uscita del Duomo della mia città diceva ad un’amica: “Che bea predica che gha fato oggi il Monsignor… proprio bea”. “Ma cossa el gha dito?” “No gho capio gnente.. a iera cussi bea…”
Quella, però, era semplicità di spirito. Quello odierno è solo… snobismo. Ovvero… sine nobilitate… perché non vi è nulla di nobile, quindi di elitario in questi grovigli di oscurità.
È come l’arte concettuale. La possono capire in pochi, mi si dice. Occorre una lunga elaborazione per arrivarci…
Sarà …. ma Giotto o Raffaello lo capiscono tutti. La bellezza e la poesia arrivano immediate anche ai più semplici…. poi ci si può anche sbizzarrire con le interpretazioni. Ma solo poi…

Alcuni dei massimi scrittori italiani dell’ultimo secolo, ricercavano uno stile semplice. Penso a Giovanni Papini. “L’uomo finito” e “Il Diavolo” andrebbero fatti leggere a scuola. Insegnano a scrivere. E così “Il Diavolo a Pontelungo” di Bacchelli. “Dio ne scampi dagli Orsenigo” di Vittorio Imbriani. “Il richiamo di Alma” di Mattioni. “Divertimento 1889” dello sfortunato Morselli.
Ma sfortunati sono tutti questi libri. E questi scrittori. Al massimo un paio di righe nelle storie letterarie. Gli studenti ne ignorano l’esistenza. Perché, per lo più, la ignorano anche gli insegnanti.
E penso a Giovannino Guareschi. Da sempre ostracizzato. Boicottato. Ignorato.
Troppo plebeo per la cultura progressista e radical chic. Con quei suoi baffoni, le camice a scacchettoni…. con le sue storie di paese. Parroci e sindaci fabbri, contadini e agrari. Osterie e case del popolo. Fastidioso. Un anacronista. Capace di straordinarie narrazioni surreali come “Il destino si chiama Clotilde”. E di poesia, come “La favola di Natale”.

Ma era semplice. Nella scrittura come nello stile di vita. Frequentava non i salotti letterari, che inneggiano, oggi, a geni del calibro della Murgia e di Saviano. Lui andava in osteria, con la gente piccola. Come Simenon nei bistrot della periferia di Parigi. Come Dante nelle taverne di Firenze. A bere vino. E a tenzonare con Forese Donati. O con quello spiritaccio geniale di Cecco Angiolieri….