Il 26 giugno di 53 anni fa, moriva Don Milani. Siccome pare che, tra i sognanti e deliranti della sinistra rosa, dopo averne fatto un’icona pop, con quella bischerata dell’“I care”, nessuno intenda ricordarsene, voglio farmi carico io della sua apologia: in fondo, sulla copertina di un mio vecchio libro, campeggiava la sua faccia, contrapposta a quella di Giovanni Gentile, ad indicare la scuola cattiva contrapposta a quella buona, e qualche scusa gliela devo.
Don Milani, al di là delle fumantine arcicazzate che estrudeva, quando qualcuno lo faceva arrabbiare, ha fatto il suo mestiere: coraggiosamente, caparbiamente e talvolta ottusamente. Era un prete, e un prete ebreo, perdipiù: aveva la fede incrollabile e un tantino fanatica dei convertiti. Si scontrò con la gerarchia religiosa dell’epoca: pedante, ignorante, cacadubbi. Pensavano di fargli abbassare la cresta e, invece, lo consegnarono alla storia.
A Barbiana, ovvero come dire a casa di Dio, Don Milani trovò un microcosmo di cui poteva essere il demiurgo: creò un mondo educativo minuscolo ed efficacissimo, in cui le sue idee di uguaglianza e fraternità si potevano applicare con successo. Ma erano quattro gatti, analfabeti e montagnini: Don Milani fu un Carlo Magno riformatore, ma riformò un cortile.
Il suo lavoro, almeno finchè non si mise a farla fuori dal vaso, pensando di poter estendere Barbiana all’universo mondo, fu un ottimo lavoro: morta lì, verrebbe da dire. Ma, come spesso accade, non sono gli autori a fare disastri, quanto i loro estimatori postumi: non è Svevo la malattia, sono le professoresse insvevizzate.
Così, da prete riformatore di montagna, Don Milani è diventato il modello di una nuova scuola: della scuola peggiore, quella di oggi. Le sue istanze di uguaglianza sono diventate facilismo e appiattimento, il suo desiderio di riscatto sociale per i ragazzi poveri e ignoranti è diventato pauperizzazione e ignoranza generalizzate.
Credo che lo stesso Don Milani, se leggesse una circolare ministeriale dell’anno 2020, bestemmierebbe alla turca. Quindi, cari electomagici, io voglio ricordarlo per quel che fu: non per quello che ne hanno fatto generazioni di insegnanti della Cgil o di politiconzoli semibolliti.
Don Milani fu un combattente e un intransigente: purtroppo per lui, non aveva capito chi fosse il nemico. Erano altri tempi, va detto, e riconoscere gli idioti, forse, era meno facile. Fatto sta che la piccola rivoluzione operata da Don Milani sull’Appennino, una volta calata a valle, si trasformò nella più catastrofica visione educativa degli ultimi cent’anni: la madre di tutte le catastrofi scolastiche, che ha generato la Gelmini e la Fedeli, Fioramonti ed Azzolina.
Sono tutti figli del milanismo di ritorno: della scuola che, anziché essere contro i privilegi, è semplicemente contro il merito. E credo che il modo migliore di ricordare Don Milani, nell’anniversario del suo trapasso, sia ricordare che, probabilmente, questi suoi imbarazzanti e non voluti epigoni li avrebbe presi tutti a calci nel preterito. Con i suoi begli scarponi da montagna, con tanto di bullette.