Bruce Chatwin dice che la vera dimora dell’uomo è…la strada. Non una casa, con fondamenta e mura. Non qualcosa di fisso, stabile. Statico. Ma la strada. La via, più o meno impervia. La pista e il sentiero.
Perché l’uomo, di sua natura, non è stanziale. Tende a muoversi. A spostarsi. A cercare nuove terre, nuove dimore. Sempre provvisorie. Forse un retaggio dei cacciatori raccoglitori, che per lunghissimo tempo popolarono la terra spostandosi, da predatori quali erano, per seguire i branchi delle loro prede. Sempre ammesso che ciò che ci racconta la paleontologia risponda a verità….
La vita stanziale venne solo dopo. Molto dopo. Con il Neolitico, e la nascita della agricoltura. Forse 12/13 mila anni fa. Nulla a confronto delle centinaia di migliaia di anni, l’abisso della preistoria, in cui il cacciatore vagava tra le terre. Inevitabile che nei nostri geni, o nella nostra memoria atavica, il nomadismo sia impresso piu profondamente della vita stanziale.
Certo, nel tempo le culture, le civiltà si sono sempre più legate ad una terra precisa. Delimitata. Hanno costruito città. Tracciato confini. Però la tendenza ad essere nomadi, l’attrazione per la strada, è rimasta sul fondo. Come una sorta di inquietudine. Di richiamo. Di lì il gusto per i grandi viaggi del Medioevo. Per le, cosiddette, scoperte geografiche. Per le esplorazioni delle terre ancora incognite.
Tuttavia, la frase di Chatwin, impareggiabile cantore della “alternativa nomade”, mi sembra possa venire letta anche in un altro senso. Più lato, certo, ma, a ben vedere, più profondo.
Dicendo che la nostra, vera, dimora è la strada, ci indica uno stile di vita. Interiore, prima ancora che esteriore. Perché sulla strada puoi portare con te solo ciò che è indispensabile. Essenziale. Nulla di superfluo. Il peso che puoi sopportare è limitato. Ogni gravame in più, inutile, si trasforma in fatica. In un ostacolo. E quindi devi sapere operare le giuste scelte. Abbandonare ciò che, davvero, non ti serve.
Il pellegrino, come il nomade, porta con sé molto, davvero molto poco. E questo gli basta per vivere. Anzi, rende la sua vita, paradossalmente, più semplice. E, in certo qual modo, più felice.
Il sedentario è schiacciato dal peso delle cose. Ciò che possiede, le sue proprietà, lo vincolano. Imprigionano. Non è mai libero. Sempre occupato e preoccupato per qualcosa. La sua vita diventa oppressione. Costrizione. Nevrosi. Si deve occupare di tutto. E non ha tempo per se stesso. Per la sua anima. E per seguire una via che sia davvero sua. Una sua scelta. E non una costrizione.
Mi viene in mente Andrian. Eravamo a Montagnaga di Pinè, per il Wks de “Il Nodo di Gordio”. Molti anni fa, ormai, a pensarci bene…già, il tempo vola, e quella dove mi sto recando mentre scrivo queste righe, sarà la XIX edizione del Wks.
Comunque Andrian era un grande amico. Ed anche l’ambasciatore del Kazakhstan.
La sera, dopo dibattiti e tavole rotonde di geopolitica ed economia, si tirava tardi sulla terrazza del Posta. A bere e chiacchierare.
Ricordo che ad un certo punto Andrian alzò il capo al cielo. Ed era una serata, una di quelle notti in cui, tra i monti del Trentino, puoi vedere tutte le stelle. E la via lattea splendere di un candore quasi abbagliante.
Sorrise felice.
“Mi ricorda la mia casa..” disse. Io lo guardai perplesso. E allora continuò.
“Vedi, io ho una bella casa nella capitale. E come diplomatico ho vissuto in bellissime case in alcune delle più grandi metropoli. Come a Roma, dove alloggio in quella splendida Villa Manzoni…
Però io mi sento davvero a casa solo nella steppa. Come i miei antenati nomadi. Mi basta un cavallo, una bisaccia con un po’ di cibo. Acqua fresca. E mi stendo sull’erba. Guardando l’immensità del cielo. E, sai?, sono davvero felice… ”
Con Chatwin si sarebbe capito…