La Valanga Azzurra. Magari, per qualcuno dei lettori potrà anche essere un frammento di storia: un reperto annalistico. Per noi, che siamo nati fra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, e che siamo cresciuti all’ombra delle montagne, la Valanga è stata la più bella favola dei nostri anni più belli. Quello che sognavamo di essere, quando schiacciavamo la talloniera e inforcavamo i bastoncini: non fa nulla se i paletti erano troppo vicini e ti arrivavano in faccia troppo in fretta.
Volavamo, con la fantasia. E, anche fisicamente volavamo: alla terza o alla quarta porta, in una nuvola di neve e di madonne. Ma loro ci riscattavano da qualunque oltraggio della realtà fenomenica, da qualunque figuraccia rimediata in pista: loro erano invincibili. Indossavano maglioni bellissimi, con l’imbottitura tricolore sulle braccia; e pantaloni formidabili, e cappellini con una specie di fulmine bianco rosso e verde.
Noi, pistolini ridicoli, cercavamo di imitarli, nelle pose, nel vestire, ma potevamo solo ambire al succedaneo: in punta di piedi, non arrivavamo alle loro ginocchia di giganti. Non solo i due Thoeni (Rolly ci ha lasciato che è poco), ma Cavallo Pazzo, il fenomeno di Salice d’Ulzio, il missile di Vipiteno, il caro fausto Radici e l’”ogialina” Pietrogiovanna. E il duo Anzi e Besson, che sembravano uno solo e li confondevamo, e il tamocco Schmalzl e Varallo.
Insomma, tutti loro erano, per noi studenti di terza media o di quarta ginnasio, il mito fondante: non ce ne fregava nulla di Rivera e Mazzola e pochissimo di Meneghin e Bariviera. Però, avremmo dato un rene per far parte di quella accolita di matti, che si scaraventava giù dalla Streif o dalla Olimpia, come se stesse sciando nel campetto sotto casa.
Era uno sci magnifico e primitivo: le piste mal preparate, i paletti di legno, gli intermedi ballerini. A vedere oggi quelle prime immagini a colori, viene un po’ da ridere e un po’ di magone: davvero sciavamo così? Eppure, il gesto tecnico era di un’eleganza incomparabile: quell’anca sporgente, quelle braccia ritmiche, quelle punte divergenti nel passo spinta, avevano un fascino che lo sci di oggi, nella sua robotica perfezione, non sempre esprime.
Non credo che sia solo questione di ricordi: del fatto che ad ognuno i suoi anni verdi sembrano più verdi degli altri. Quelli erano anni davvero formidabili per lo sci: e per lo sci italiano in particolare. Il benessere aveva permesso anche a chi non fosse milionario di frequentare le località sciistiche: gli Italiani stavano scoprendo la montagna. E un pochino stavano già iniziando a rovinarla, ma questo è un altro discorso.
E noi, figli di quel benessere, a Natale ci facevamo regalare dei nuovi scarponi o la giacca a vento dei nostri maestri: era quello il nostro immaginario. Così, a quei giovanotti robusti e vincenti, ora tributiamo un ricordo affettuoso e grato: lo meritano davvero. Gustav, Rolly, Piero, Fausto, Erwin, Helmut, Stefano, Tino, Giuliano, Herbert: tutti quanti, vivi e morti, vincenti e meno vincenti. Perché, alla nostra generazione, hanno regalato un sogno bianco, grande e meraviglioso.