Mi capita sott’occhio una foto. Su fb. Una foto in bianco e nero, come molte su quel sito. Un sito che parla della mia città. Dove sono nato e vissuto per tanti anni…e dalla quale ormai… Ma questo non c’entra.
È una foto di un vecchio edificio. Che si trovava dietro alla Piazza, in un vicoletto. Una grande casa da contadini. Grigia, a due piani. E con un pergolato ampio, coperto, nella bella stagione di vite rampicante. Quella che chiamavano vite americana. Ora non esiste più, da molti anni. Decenni, ormai. Venne buttata giù per fare spazio ad un Grande Centro Culturale. Che il sindaco dell’epoca definì, pomposamente, come il nostro Beaubourg. Che poi si arenò tra debiti, fallimenti, inchieste per corruzione. E divenne, alla fine, un, orrido, scatolone di cemento. Vuoto e inutile.
Ma intanto la Vida, la vecia Vida come la chiamavano tutti, era stata buttata giù… Un pezzo di storia cancellato. Non il primo sacrificato sull’altare della modernità. E della speculazione. Non l’ultimo, purtroppo..
Era un’osteria. O meglio l’osteria cittadina per eccellenza. Ed era ricca di storie. Che risalivano ad oltre un secolo prima.
Ad esempio, prima della Seconda Guerra, era stata gestita dalla Famiglia F*****. E il vecchio padrone era un oste. Ma un oste eccentrico ed aristocratico a suo modo. Se un avventore entrava e gli chiedeva, come usava e, in parte ancora usa: ‘Un’ombra!”
Lui rispondeva piccato: “Noi serviamo calici di vino. Non ombre”. Un tipo così, insomma.
Aveva tre figli maschi. Ad uno è intitolata una piazzetta cittadina. Giorgio, comandante partigiano e medaglia d’oro della resistenza. Un partigiano bianco. Per altro ucciso da altri partigiani, in un regolamento di conti. Il secondo si chiamava Giulio. Caduto nel I Battaglione Bersaglieri Volontari “Mussolini”. Il primo reparto costituitosi della RSI. Prima ancora che Scorzeny andasse a prendere Mussolini sul Gran Sasso.
Il terzo Giuseppe detto Pino, me lo ricordo bene. È morto non molto dopo mio padre, di cui era amico. Anche lui, come Giulio, era andato con la RSI, ma aveva portato la pelle a casa. E andava alle commemorazioni di entrambi i fratelli. Quelle dei partigiani. E quelle dei fascisti repubblicani. Una storia come tante. Una storia italiana.
La Vecia Vida era un punto di ritrovo. Soprattutto nella bella stagione. Ci si sedeva sotto la pergola. Un’ombra, o meglio un calice di bianco. E si mangiava qualcosa. Facevano degli ottimi gnocchi al formaggio. Ma ricordo soprattutto le sarde in saor. Piatto veneziano tipico del Redentore. Come i bigoli in salsa. Con cipolle, acciughe, uva passa, pinoli. Una spruzzata di pan grattato. E di prezzemolo.
E poi le…moeche. I granchi che facevano la muta. Privi del guscio. Morbidissimi. Farcite di uovo e pane. Fritte. Una squisitezza assoluta. Ma di cui non descrivo il procedimento. Per non offendere anime sensibili. E non suscitare le ire delle vestali e degli zeloti di un politically correct alimentare. Quelli che vorrebbero farci mangiare i vermi. Ma che inorridiscono davanti al formaggio verde…
Ho molti ricordi della Vida. Che, ovviamente, prendeva nome dalla vecchia vite rampicante, che ombreggiava il pergolato. Ma chissà perché, nel mio dialetto Vida, può anche significare “la vita”. Caso di omofonia, certo. E che però, mi lascia pensare.
La vecchia Vite. La vecchia Vita. Quella distrutta per costruire aridi scatoloni di cemento. Vuoti e inutili.
La vita di un tempo… Ma questi sono proprio discorsi da vecchio…