I sentieri che portano alla Montagna. Le vie dei monti. Percorse nella giovinezza. E, oggi, ancora presenti nella memoria. E vivide nella fantasia. Ricordi di discese ripide, sui ghiaioni…. L’incontaminata bellezza della Val Travenanzes, scendendo dal Picco Lagazuoi. Costeggiando il Castelletto, teatro della guerra di gallerie e mine tra Austria e Italia… e poi girando tutto intorno alle Tofane. Tra ruscelli di acque di ghiacciaio, una fauna selvatica e libera, una fioritura di rododendri e stelle alpine. Sino a Fiames. E di lì a Cortina, nell’incredibile cornice del Cristallo, del Po Magagnon, del Sorapis. L’Ampezzo nel suo fulgore …
E il sentiero nel ghiaione che dal Rifugio S. Marco portava al Galassi. Alle pendici dell’Antelao. Tante volte percorso con mio padre e i suoi amici. Sotto il sole di Luglio, in quelle fresche estati trascorse tra i boschi del Cadore. Fresche per la temperatura, ché l’altitudine leniva la calura… . E fresche, soprattutto, per lo spirito di quegli uomini che amavano la montagna. Lo spirito di una vacanza che non era monotonia dell’impigrirsi al sole su una spiaggia… Era fatica, scarpinate, risate e canti al rifugio. Piatti di polenta fumante con i funghi, col capriolo. Col formaggio di malga. Un bicchiere di vino. Una grappa…
Uomini che avevano vissuto una guerra. Sofferto la prigionia. Stentato negli anni della ricostruzione.
Spesso uomini con storie, idee molto diverse. Addirittura antitetiche. Ma uniti dall’amore per quei luoghi. Per quei monti… Dalla luce del tramonto che li rivestiva di rosa. Delle aurore che li rendevano pallidi. Quasi vitrei e traslucidi…
Erano uomini profondamente liberi. Perché la Montagna si può amare solo così. Se si ha un senso, radicato, di libertà. Se non ci si sente parte di una massa amorfa. Se si sa apprezzare la solitudine… Ma meglio sarebbe usare il plurale. Le solitudini. Perché questo sono i sentieri che si inerpicano tra boschi di conifere e rocce coperte di muschio profumato. Solitudini. Infinite. Vastissime. Profonde. E silenziose. Il canto degli uccelli. Il fruscio che indica la fuga di un animale nel sottobosco. Il vento tra i rami… E, soprattutto, il silenzio. Che lì ha davvero qualcosa di… sovrumano.
Il richiamo, ovviamente, è a Leopardi. Che, certo, non fu mai sulle Dolomiti. Né su altre montagne. A meno di non considerare tale quella specie di collinaccia che si affaccia su Recanati. Il Tabor. Il colle dell’infinito… Ma lui, il poeta, non aveva bisogno di viaggiare col corpo. Gli bastava… fingere nel pensiero. Immaginare. Per sentirsi in cima ad una vetta, e contemplare un immenso oceano di nebbie… Come nel quadro di Friedrich…
Fu invece spesso su quelle vie alpine il professor Carducci. Che le amava. E, nella tarda maturità, quasi vecchiaia, era uso soggiornare a Pieve di Cadore . E passeggiare per quelle distese boschive. Con pesanti scarponi, pantaloni di fustagno, giacca da cacciatore toscano. E appoggiandosi ad un bastone…così ce lo mostrano i dagherrotipi d’epoca.
In quelle vie appena tracciate, tra quelle ghiaie e quegli spuntoni di roccia, vedeva scorrere la storia. O meglio, le storie degli uomini. E dei popoli. Che quei sentieri avevano percorso per secoli… Quelle vette scalato….quei valichi, scavalcato.. e, come sempre, ne traeva poesia.
Perché le vie dei monti riecheggiano storie e leggende. E lì, sovente, la realtà e la fiaba si confondono. O meglio, trascolorano l’una nell’altra.
I Regni incantati dei Nani, sembrano rivelarsi in quello che un animo disincantato considererebbe solo un gioco di luce tra il verde… Ma chi ha un tale animo, in genere, non si addentra fra i monti… E se, per caso, vi capita resta chiuso in sé. Nel suo, asfittico, bugigattolo che chiama, enfaticamente, mente… O psiche. Non vede. Non può vedere…
Le vie dei monti richiedono fatica. Non solo, anzi neppure tanto per venire ascese.
Per venire comprese, piuttosto.
Sono vie che, ai più, paiono ostili. Così come ostili, o per lo meno ruvide possono sembrare le genti che le abitano. E percorrono.
Val dei Mocheni, sopra il luminoso, Altopiano di Pinè. Una manciata di chilometri da Trento, con il suo centro denso di memorie medioevali, il palazzo vescovile che sembra un lavoro di ricamatrici capaci di tessere la pietra. Il governo del Vescovo Conte. L’eco di una presenza di Dante….
Eppure, la Valle dei Mocheni sembra un altro universo. Separato. Non solo per la lingua, un dialetto tedesco del 1500, serbato gelosamente da un piccolo popolo che ancora vive, spesso, in fantastici Masi. E neppure per alcune peculiarità biologiche. La “capra Mochena” dalle lunga corna attorte. I frutti di bosco più gustosi ed esteticamente belli che mai abbia mangiato.
Piuttosto, per l’atmosfera. Un senso di libertà. Di un vivere ancora in rapporto con la natura, la bellezza. Gli spiriti ed esseri che da sempre abitano quei luoghi… Sentire il ritmo delle stagioni. I lunghi inverni innevati, isolati dal mondo. L’ebrezza di una solitudine dove nulla può giungere a condizionarti, non un governo oppressivo, non le paure di masse senza volto…
Camminare per quei boschi. Su quei sentieri… Dimenticare lo squallore del presente. Essere ancora uomini, in sostanza