Questione di punti di vista. Il coronavirus, in senso lato, è una formidabile sfiga. Per la Murgia, invece, è una goduria: si sta più comodi e c’è poco traffico. Per me, che occupo meno spazio della Murgia e giro in Vespa, il coronavirus è semplicemente il seguito di una serie di bizzarre coincidenze, tutte volte a far sì che io viva nell’ozio.
Premetto che vivo nel centro di Bergamo, ovvero nel centro del centro dell’epidemia: data la mia proverbiale disattenzione, tuttavia, vi assicuro che, se non me l’avessero detto, nemmeno me ne sarei accorto. Comunque sia, da quando è arrivato questo benedetto anno bisesto, la mia esistenza è uno sconcertante andirivieni di cose brutte che si trasformano in cose belle. Belle per me, intendiamoci, chè i poveracci in terapia intensiva mica me li dimentico.
Vi riassumo l’andamento del 2020 cimminiano. Il 13 gennaio compio sessant’anni: due giorni dopo, una simpatica signorina brasiliana brucia uno stop e mi fa carambolare a novanta all’ora sull’asfalto. Niente di che, per un vecio alpin: un braccio e un paio di costole rotti, più un naso da Mastro Ciliegia e loden e cashmere da buttare. A parte una specie di gessetto al braccio sinistro, sono ancora in grado di fare danni, ma l’accesso a scuola mi è precluso dall’Inail (o dall’Inps?): mai sia che un infortunato torni a lavorare prima dello scadere della prognosi! Così, fino ai primi di febbraio me ne sto in panciolle: mi tolgo il gesso da solo, perché mi prude, e faccio la vita del Michelasso, che mangia, beve e va a spasso.
Torno a lavorare e, dopo cinque giorni, parto per Cracovia, con la mia quinta: scopro, in seguito, che siamo l’ultima gita scolastica autorizzata a partire da Bergamo. Torniamo venerdì 21 e, in serata, la Regione Lombardia decide di chiudere le scuole. Che culo, penso subito: poi, però, mi ricordo di avere sessant’anni e di essere un serio professionista, così inizio a preoccuparmi per lo svolgimento del programma, nonostante la quarantena. Bene, mi dico: la scuola si sarà organizzata per tenere lezioni a distanza. Io, ormai, a distanza mi faccio perfino il caffè: figurati se una scuolona grande e grossa non si è attivata per collegarsi col mondo!
Così, preparo sul mio computer più veloce e potente (16 giga di ram, mica bruscolini) tutti i programmi possibili per fare didattica in modalità smart working: skype, classroom, slack, zoom. Smart un paio di palle: la scuolona non si è iscritta a classroom, anche se è del tutto gratuito, e, senza l’iscrizione della scuola, il povero insegnante non può fare un bel nulla.
Così, anziché lavorare, sia pure da casa, mi vedo costretto a tifare davanti alla tv per la Brignone, memore di essere stato innamorato della Ninna Quario, ai tempi della Valanga. Beh, mi dico: in fondo è solo una settimana. Invece Gallera raddoppia e Conte conferma: le settimane diventano due. A questo punto, cedo le armi e preparo la borsa per salire a Pinzolo: fanculo la didattica a distanza! Che dire? Avrei potuto scrivere un elzeviro di fuoco, del tipo: qui non funziona un tubo, maledizione! Ma ho sessant’anni e la saggezza mi s’impone: la vita è una sequenza di dolori, intervallati da brevi requie. Solo che le mie requie sono lunghissime…