Vi è un vecchio film. Un film che piaceva tanto a mia madre. Tratto da un romanzo che la aveva appassionata da ragazza. “La voce nella tempesta” di Emily Bronte… Provò a farmelo leggere… ma confesso che non mi appassionò granché. Mi parve un polpettone. Trasudante un sentimentalismo tardo romantico che mi dava un vago senso di nausea. Limite mio, certo. Ma avevo sedici anni. E leggevo Nietzsche e, di nascosto, “L’amante di Lady Chatterly” di Lawrence… altra roba.
Comunque, il film lo vidi. E ricordo un intenso Lawrence Olivier. Ben poco altro. Tranne la scena madre, che apre e diviene, poi, il finale. Quella che giustifica il titolo. La voce di lei, l’Amata da sempre, che lo chiama. E lui che esce sparendo nella tempesta. Verso la morte. ..forse.
Mi è restata impressa. Più che per la furia di Olivier, o per la presenza, narrata nel finale, dei fantasmi dei due innamorati, proprio per la Voce. Per quella voce che sembra avere il potere di attraversare le barriere del tempo e dello spazio. Ed infrangere, addirittura, quelle porte che separano i viventi dal regno dei morti.
Romanticismo, ancor tardo, certo. E tuttavia che serba una qualche eco di una credenza ben più antica. O meglio, di una sapienza con remote radici.
Perché la voce serba in sé un…potere. Non è, soltanto, il prodotto dell’azione, più o meno coordinata, di corde vocali, lingua e altri organi di fonazione. Che sono, appunto, organi. Quindi strumenti, che vanno utilizzati e, se possibile, educati. Come sanno bene i cantante e gli attori. O meglio, come ben sapevano un tempo. Quando recitare e cantare erano arti. Che richiedevano, come tutte le arti, impegno, studio, dedizione. E sacrificio. Oggi…beh, se siete tra quelli che guardano Sanremo, chiudiamo qui. E passiamo a parlare d’altro.
Un tempo lo si sapeva. Educare la voce era fondamentale. Gli oratori dovevano praticare specifiche tecniche. Ed imparare ad esercitarle. Ne parla Cicerone. E lo ribadisce Quintiliano. Nessun avvocato avrebbe potuto parlare alla bell’e meglio. Come un avvinazzato al banco di una taverna. Non avrebbe potuto perorare alcuna causa con una qualche speranza di successo. E nessuno avrebbe potuto intraprendere il Cursus Honorum. La carriera politica.
Ora – in questa nostra epoca in cui i politici parlano come, e sovente peggio, dei venditori di pop corn allo Stadio o dei coatti al pub – qualcuno salterà su a dire che non conta come si parla, ma la competenza, le cose che si fanno… Il novello mito farlocco del primato dei tecnici. I cui radiosi successi sperimentiamo (termine preciso) ogni giorno sulla nostra pelle.
Perché, cari signori, la “tèkne” del politico è la persuasione. E per persuadere si deve usare la parola. E, soprattutto, la voce. E questo, se non vi dispiace, è Platone. Non Beppe Severgnini. Ordine di grandezza alquanto diverso.
E comunque i vecchi politici, quelli di quando ero ragazzo io, sapevano parlare. Erano ancora oratori. Avevano i loro difetti, gli Almirante, i Pajetta, gli Andreotti. E stili diversi. Ma sapevano ciò che dicevano. E sapevano anche dirlo. Bene.
Ma volete davvero fare paragoni?
D’altra parte i grandi seduttori usavano la voce come strumento di conquista. E non era tanto ciò che dicevano a fare breccia nella Donna. Era la voce con cui lo dicevano. Ve lo immaginate il Don Giovanni di Mozart che canta in falsetto? Con voce stridula? Gli avrebbero rifilato tutte il due di picche. Altro che seguirlo nel giardino, pur dicendo “vorrei e non vorrei, mi trema un poco il core..”
Erano sopratutto i Maghi ad utilizzare “la Voce”. Per invocare, evocare dominare. Mago è parola che deriva da una radice iranica “mag-“, probabilmente dalla, misteriosa, lingua dei Medii. Che erano sacerdoti e, appunto, Maghi. Ovvero detenevano la sapienza e il potere. Questo il significato. E il potere veniva esercitato con la Voce. Non erano tanto le parole, le giaculatorie, le formule. Era il modo di modulare la voce, di farla vibrare, risonare con profondità. Questo evocava gli Dei. Questo dava il potere sugli altri uomini.
E sulle donne. Dicono che alcuni “incantatori” potessero sedurre le loro prede senza sfiorarle. Solo col potere della voce. E pare che Gurdijeff conoscesse, e talvolta praticasse, tale tecnica. Che ritroviamo in alcune forme del tantrismo. E che, per altro, presenta anche la sua versione rovesciata. Anzi, la declinazione al femminile del potere seduttivo della voce è forse ancora piu frequente. A partire dal mito delle Sirene. Orridi mostri antropofagi in Omero. Splendide fanciulle, ancorché con coda di pesce, nell’iconografia più tarda. Ma comunque capaci di sedurre il navigante con la sola voce. E di condurlo al naufragio con quei suoni di inenarrabile armonia.
Ed è il tema sotteso al, misterioso, Ordine delle Bene Gesserit, in Dune di Frank Herbert. Un Ordine femminile, la Sorellanza , che veglia sui, complessi, equilibri dell’universo. E le cui Reverende Madri, hanno il potere della Voce. Con la quale soggiogano qualsiasi uomo. E piegano i principi alla loro volontà. Qualsiasi…sino a che non arriva Paul Atreides, ormai divenuto Muhaddib. L’atteso Messia di Dune. Che, usando proprio la Voce, le piega.
E, a questo punto, ci starebbe proprio bene una, lunga, digressione sul Castello d’Amore del Marino. La torre del Castello d’Amore. L’inizio del percorso di iniziazione erotica, che appunto parte dalla voce. E dal suo potere di seduzione.
Ci starebbe proprio a puntino. Ma mi sembra già di sentire la voce, non certo seducente, del Direttore.. “Ancora? Un’altra volta con l’Adone?”
Va bene. La finisco qui. E taccio…