C’è un tempo per capire, un tempo per scegliere, un altro per decidere. C’è un tempo che abbiamo vissuto, l’altro che abbiamo perso e un tempo che ci attende. (Seneca)
Quest’estate parto per il Ladakh: un viaggio lontano in terre sconosciute, un lungo cammino da percorrere e una nuova avventura da assaporare. 35 anni, con lo zaino in spalla e la voglia di esplorare e conoscere me stessa attraverso culture e luoghi differenti.
L’arrivo a Leh è emozionante: sorvolando le cime bianche della catena himalayana, atterriamo nel piccolo aeroporto tra montagne brulle color ocra sovrastate da un cielo blu intenso e nuvole bianche. Il sole è forte e caldo, il clima è secco. Ci troviamo a 3500 metri di altitudine. Mi sento già innamorata e di appartenere a questo posto.
Veniamo trasferiti in hotel: è lussuoso e ha un grande giardino; è posto un po’ più in alto rispetto alla città e la vista di monasteri e montagne è impagabile. Veniamo accolti all’ingresso, dove ci viene offerto il “kata”, la sciarpa bianca tibetana, in segno di saluto e simbolo di buon auspicio per qualsiasi avvio di impresa o rapporto umano. L’offerta del kata indica le buone intenzioni della persona che la offre.
Insieme al kata, ci viene servito il the in giardino e poi il pranzo, dove gusto con piacere dei Tibetan vegan momo, una specie di ravioloni farciti di verdure e cotti al vapore, che adoro. Nel pomeriggio andiamo alla scoperta del piccolo centro di Leh con i suoi negozietti e mercatini di ogni genere. Prima di cena facciamo un check dell’attrezzatura alpinistica per la spedizione al Kang Yatse II, dopodiché ci attende uno dei nostri primi e numerosi “dal bhat”: un piatto tipico nepalese, composto dal Dal, leggendario stufato di lenticchie, mentre la parte del Bhat è riso bollito, il tutto spesso accompagnato da verdure stufate.
Nella notte alcuni compagni di viaggio avvertono sintomi di mal di montagna come nausea, mal di testa e vomito, tra cui la mia compagna di stanza, che cerchiamo di assistere facendo ricorso ai farmaci tipici. Il giorno successivo, ci sarà purtroppo bisogno per una compagna di spedizione di fare ricorso all’ossigeno e per molti al diamox.
I primi giorni di acclimatamento a Leh si succedono in visita ad incantevoli monasteri tibetani, dove vengo seguita costantemente dalla versione musicale del mantra Om Mani Padme Hum, che già in Nepal mi aveva rapito.
Il primo giorno visitiamo Sanker Gompa, Tseomo Gompa, Shanti Stupa; al rientro in hotel, con grande sorpresa e gioia, mi viene proposto di condurre una breve sessione di yoga sul prato, che mi fa entrare sempre più in sintonia con questa terra e prossima a questa esperienza che mi sto accingendo a vivere. Il secondo giorno viene invece dedicato alla visita del bellissimo monastero di Hemis, oggi venerato come il più grande istituto monastico del Ladakh, e al monastero di Thiksey, uno dei più grandi e importanti centri studio per monaci paragonabile a Potala di Lhasa. Abbiamo pure assistito a un rito di preghiera.
Ho fatto l’interessante scoperta dell’esistenza di molti monasteri di monache buddiste tibetane, che però non sono aperte ai turisti.
Ci immergiamo nella religione buddhista tibetana: il Buddha della compassione, della saggezza e del potere; il Buddha del passato, presente e futuro; il fiore del Loto (simbolo della compassione); il samsara e il nirvana; un Buddha rappresentato sempre magro, non come nella versione occidentalizzata e commerciale, per via della continua meditazione; le preghiere sulle bandierine dai cinque colori, rappresentanti ciascuno i cinque elementi: bianco aria, giallo terra, blu spazio, verde acqua, rosso fuoco.
Al nostro rientro a Leh, apprendiamo che l’India ha ritirato l’autonomia del Kashmir e si temono attentati terroristici islamici, per cui sono state evacuate 20.000 persone, chiuse le scuole e il governo indiano ha di conseguenza bloccato internet, per cui anche noi siamo rimasti senza WiFi. Il Kashmir è una regione situata a nord del subcontinente indiano fra India e Pakistan, che ne rivendicano entrambe la sovranità.
Il giorno seguente visitiamo i monasteri di Phyang, Likiri, Alchi e Lamayuru.
Nei templi siamo immersi nel profumo degli incensi. Il “potala incense” è un incenso tibetano di 25 erbe curative per proteggere e purificare l’ambiente da energie non benefiche. Privo di qualsiasi sostanza sintetica e di alta qualità, viene usato per le preghiere per domandare saggezza interiore, radiosità fisica e la longevità.
Finalmente, iniziamo il trekking nella Markha Valley!
Qualche curiosità in pillole:
• Si svolge in campi tendati: per intenderci, si dorme in tenda e sacco a pelo
• Tende e borsoni sono trasportati da cavalli e muli
• Lo staff è composto da guida, cuoco e aiuti cuoco, arrieros…
• La mattina in tenda si viene svegliati dal “wake up tea” e poco dopo da una bacinella di acqua calda per lavarsi denti, mani e faccia. La colazione viene fatta nella tenda principale a base di chapati (pane tipico della cucina indiana) con miele o marmellata, black tea o Nescafe, uova, porridge di avena. Porto sempre con me anche una buona scorta di barrette e biscotti Oswego, non si sa mai…
• Non esiste connessione a internet o WiFi: da un lato, mi consente di staccare veramente, dall’altro il pensiero ricorrente è come stanno a casa…ma capisci che sei nel posto giusto perché smetti di chiederti che ora è!
• Il pranzo è al sacco mentre si cammina: abbiamo mangiato tutti i giorni uovo e patata bolliti, con un frutto o un succo di frutta
• La merenda al campo tendato dopo tante ore di camminata è un rito quasi sacro
• La cena viene servita presto, verso le 19, ed è composta da una soup (di mais o verdure o noodles) come entrée e a seguire dal bhat, verdure bollite, frutta sciroppata riscaldata…qualche volta, anche patate arrosto, pop corn, pasta o pizza
• Il bagno per i bisogni è allestito da una piccola tenda dentro la quale è scavato un buco in terra, mentre le pipì notturne avvengono il più delle volte fuori, vicino alla tenda
• Il tempo libero lo si passa chiacchierando, leggendo libri e scrivendo il diario.
Il terzo giorno di trekking superiamo la quota dei 4000 con la visione del Kang Yatse. Iniziano paesaggi davvero affascinanti. La Markha Valley è verde e piena di rivi anche da guadare, circondata da montagne brulle e ripide su cui spesso si stagliano monasteri tibetani. La temperatura scende ogni giorno che passa e il meteo è molto variabile.
Al quarto giorno di trekking, giungiamo al Kang Yatse Base Camp, collocato a 5035 metri: sono curiosa di conoscere su di me gli effetti della quota ed eccitata all’idea di scalare il mio primo 6000 dopo tre 5000 sulle Ande peruviane e alcuni 4000 alpini.
Superiamo un lago e con esso l’altezza del Monte Bianco. Arriviamo al campo base intorno alle 14, dove ci viene offerto il the…e l’anguria a 5000 metri! Mi dedico alla preparazione di attrezzatura e zaino prima e al riposo poi, dopo una bella sciacquata nella solita bacinella. Stasera la cena è alle 17 con soup, super power dal bhat, ananas sciroppato caldo. Verso le 18 cerchiamo di accucciarci nelle nostre tende ma l’adrenalina è alta e continuo a controllare l’attrezzatura.
Dormo un paio di ore; fuori piove ma io resto fiduciosa. Ci sveglia il wake up tea alle 22,30. Alle 23 facciamo colazione con black tea, chapati e miele. Aspettiamo però la mezzanotte a partire: continua a piovere e le due guide nepalesi esperte himalayane sembrano incerte a mettersi in marcia. Quando ci muoviamo, piove ed è buio. Si vedono solo le luci delle nostre frontali. Dietro la guida, c’è la mia amica nonché accompagnatrice del gruppo Maury, poi io e dietro a me si alternano Mario e Chris. Abbiamo un buon passo e fiato per qualche scambio di parole scherzoso e ottimista: infatti, siamo ancora su pietraia quando d’improvviso ci colgono la schiarita e una stellata pazzesca. Salendo, le roccette si coprono di verglas e, nonostante il buio, noto che stiamo salendo a sinistra della slavina vista scendere ieri. In circa 2 ore e mezza siamo al crampons point: approfitto per mangiare una barretta al cioccolato e quinoa e buttare giù un po’ di the caldo.
Le guide decidono per le cordate: io sono con la guida più anziana, Silvia, Mario e Chris. Mi spiace non essere con la Maury e purtroppo non c’è tempo per fare riflessioni o cambiamenti: partiamo subito su un pendio di 45° di neve sfondosa e inconsistente sotto un sottilissimo strato di crosticina. Io che sono più leggera riesco a galleggiare ma gli altri sfondano fino alle ginocchia o al bacino e battere traccia risulta difficile e faticoso. Infatti, non è ancora salito nessuno prima di noi ed è tutto un tracciare in neve fresca. Continuiamo ad avanzare ma piuttosto lenti: la nostra guida sembra in difficoltà sia a trovare che a battere la traccia. Si fanno le 2,30 di notte.
Al momento di superare la prima slavina, va in avanscoperta la guida più giovane ma lì la neve appare più compatta e sembra più facile procedere. E pensare che dalle ultime recensioni lette su internet il problema di ascensione su questa montagna sembrava il ghiaccio e non la sovrabbondanza di neve! Maury ed io telepaticamente ci stiamo dando manforte per non cedere innanzi ai timori e i dubbi che stanno sorgendo al resto del gruppo, secondo cui stiamo perdendo troppo tempo, peraltro su un pendio alquanto ripido e colmo di neve su un versante E-NE su cui batte subito il primo sole.
Anziché prendere una decisione, ovvero procedere spediti assumendosi il rischio soprattutto poi in discesa dalla vetta oppure rinunciare, le guide sembrano tentennare e siamo stati costretti a prendere una decisione, che purtroppo è stata per maggioranza quella di rinunciare. Siamo a 6000 metri, ci mancano poco più di 100 metri alla cima, che ci sfuma così con la tristezza nel cuore. Scendiamo il più rapidamente possibile verso il crampons point: la via di discesa è piena di buchi e crepacci, ai quali al buio prima non avevamo prestato subito grande attenzione. Chris, prima ultimo e ora primo di cordata, scompare totalmente alla mia vista: è caduto in un buco, sprofondando completamente.
Piantiamo le picche a terra e la corda si tende, per allentarla poi per permettergli di risalire. Per fortuna, con un paio di manovre è fuori e torniamo al crampons point che albeggia. Decidiamo di aspettare l’alba, che è spettacolare. “E va bene così, senza parole…”. È la prima volta che mi capita di rinunciare e non arrivare in cima. La montagna è anche questo: un grande insegnamento. Nessuno potrà mai dire chi aveva ragione e cosa sarebbe accaduto se avessimo proseguito.
Arriviamo alle 8 al campo base. Ci prendiamo un Nescafè e crolliamo in un sonno profondo. C’è il sole quando mi sveglio e con una bacinella di acqua calda mi lavo perfino i capelli. A pranzo faccio una scorpacciata di noodle soup, verdure, melone e anguria e bevo un altro Nescafè. Il pomeriggio trascorre di riposo in tenda, tra una passeggiatina e un pranayama di fronte al Kang Yatse, che è di nuovo svalangato. Alle 17 è l’ora del the: si alza il vento e, oltre alla velocità con cui cambia repentinamente il tempo qui in alta quota, mi accorgo di quanto sia un continuo tossire nelle tende quando c’è aria. L’aria sottile di Jon Krakauer.
Il freddo si è fatto pungente e preferisco rimanere in tenda a leggere e scrivere prima di cena. A cena apprendo che anche la cordata di alpinisti spagnoli e quella di indiani hanno rinunciato. A cena per farci tornare il sorriso ci portano una torta decorata su cui c’è scritto “Welcome to Ladakh”.
La notte scoppia il temporale…Peccato per oggi, ero in piena forma e stato di grazia.
L’indomani lo trascorriamo al campo base dove effettuiamo una gita fino alla base del Kang Yatse I. Ancora nessuna cordata è riuscita a salire. Ci mettiamo in marcia il giorno successivo, dove ci attende un passo a 5200 metri e una discesa in una gola con continui guadi fino a 4000 metri. Festeggiamo con musica e birra l’ultima sera di campo tendato. Come alla fine di ogni spedizione, prendo da parte la nostra guida e il cuoco per lasciare loro in dono una piccola parte della mia attrezzatura. Il sorriso che ricevo in cambio vale più di qualsiasi cosa.
Ritorniamo a Leh, nella WiFi zone, dove riesco a fare una chiamata WhatsApp a casa. La gioia di sentire la voce dei miei cari mi commuove di gioia. Stanno tutti bene. È Ferragosto e anche qui in Ladakh è giorno di festa nazionale indiana, volta a commemorare l’indipendenza del paese nei confronti del Regno Unito il 15 agosto del 1947.
Come sempre sono felice di partire, di viaggiare ma anche di tornare dalla mia famiglia, alla mia vita – per quanto sotto certi aspetti ancora da sistemare – e alle mie radici. Sento di avere compiuto un lungo cammino, fatto non solo di passi ma soprattutto di crescita interiore.
È proprio vero che spesso non si comprende il valore di un momento finché esso non diviene un ricordo.
Come si dice in Ladakh “Julley”! Ciao!