Stiamo crescendo una generazione di analfabeti di ritorno… il linguaggio si è sempre più impoverito… un liceale di oggi conosce meno della metà delle parole che conosceva un suo coetaneo di trent’anni fa…
Vecchia solfa. Che ritorna, periodicamente e fra alti lai, da diversi pulpiti. Cattedre Universitarie, Accademie (un tempo) prestigiose, corsivisti della grande stampa, intellettuali alla moda… tutti lì a deprecare, lamentare, piangere sull’impoverimento della lingua nostra, sull’ignoranza crescente delle nuove generazioni… bla, bla, bla…
Nessuno, però, di tanti, più o meno improvvisati, soloni che si faccia la domanda più semplice. Di chi la colpa?
Perché è facile pontificare… e puntare il dito accusatore contro la televisione, i social ed altre carabattole. Che con il loro linguaggio forzatamente semplificato hanno, certo, pesantemente contribuito all’impoverirsi della lingua. Al suo, torbido, meticciarsi con uno slang internazionale. L’alingua degli adolescenti, che parlano, se così ancora si può dire, con locuzioni elementari, povere. Rozze e cacofoniche.
Ok, bella fra’, ahò, cioè…. più che altro monosillabi. Un pensiero articolato ben di rado compare….
E perché dovrebbe comparire, poi? Non siamo, forse, nell’epoca in cui viene promossa l’idea che l’istruzione debba servire solo a trovare un lavoro? Con ministri e presidenti del Consiglio che vedono come scuola ideale l’Istituto tecnico agrario? Servono discorsi filosofici per portare le mucche al pascolo o per guidare un trattore?
E questi grandi intellettuali che arricciano il naso e puntano il dito sdegnati, che mai hanno fatto, o stanno facendo per porre un freno, se non proprio un’argine alla decadenza del linguaggio?
I Media, tutti, sono semplici strumenti. Le tecniche, nel senso platonico del termine, non sono di per se stesse buone o cattive. Dipende, sempre e solo, da chi ne fa uso. E dall’uso che ne fa.
E allora, guardiamo ai fatti. Chi mai ha invitato, in questi anni, i giovani, i discenti, a pensare? Il grande filosofo che dalla sua cattedra tuona contro l’imbarbarimento linguistico, è lo stesso che, due anni or sono, strillava contro coloro che avanzavano dubbi sulla realtà della pandemia, e sulla natura di certi vaccini. Bisognava avere fiducia nella scienza, diceva. E obbedire.
Ma per obbedire non serve la lingua di Dante. Basta uno slang minimale, una gestualità e un grugnire da scimmie ammaestrate.
Nessuno deve mettere in dubbio la verità sulla Ucraina, sulla Resistenza, sul bene e sul male. Questo ci viene, quotidianamente, dalle massime autorità… dallo stesso Colle.
Ma il linguaggio, per sua natura, esprime dubbio, riflessione, posizioni individuali. Segna la differenza.
Chi pensa trova, o almeno cerca, le parole per esprimere il suo pensiero. E questo, se permettete, è Hegel. Che era filosofo grande. E autentico. Non da pulpito mediatico.
Per proprietà transitiva, chi non pensa non ha bisogno di parole. Obbedisce, supino. Le parole, poche e povere, gliele dettano altri. Quelli che comandano. Quelli che determinano la sua vita. E la vogliono, sempre più, come un incubo di Fritz Lang.
L’alingua, la lingua priva di lògos, ovvero la negazione del senso logico del linguaggio, del suo essere permeato di pensiero, è, purtroppo, il futuro. Che incombe e ci attende.
Uno strumento sempre più elementare di comunicazione. Privo di sfumature e di spessore. Utile.
C’è chi, fra i linguisti, paragona questo processo ad un ritorno ad una condizione animale. Mi permetto di dubitarne. Gli animali, con il loro linguaggio “non verbale”, versi più o meno modulati, gesti, esprimono un mondo emozionale. Sentimenti. E, quindi, una interiorità.
Il gergo monosillabico che si va imponendo, mostra soltanto una, progressiva, decadenza della facoltà di pensiero. Ed un, parallelo, inaridirsi della sfera emotiva.
La solitudine di un automa. O meglio, di una massa di automi.