È il 24 Marzo. Ricorrono, come ogni giorno per altro, molti anniversari. Nascite, morti, avvenimenti storici… un gioco abituale per i giornalisti che cercano spunti per un articolo. Non sapendo che scrivere… come spesso accade…
Beh, io non sono un giornalista… ma, ogni tanto, questo giochetto degli anniversari mi torna utile…
Dunque… 24 Marzo. Tra le altre cose ricorre l’anniversario della morte del poeta statunitense Longfellow….
“E a noi che ce….” Dirà prontamente il direttore… “Perché mai dovresti parlare di Longfellow, e non di qualcun altro? Chi lo legge più questo? Ammesso che anche in passato lo si leggesse, poi…”

Però, vedete, Harry Wadsworth Longfellow non è, solo, un poeta (peraltro importante) della Nuova Inghilterra del secolo XIX. Rappresenta, un certo qual modo, l’altro volto dell’America. Perché era, profondamente, legato alla cultura europea. E, soprattutto, a quella neo-latina.
Aveva compiuto molti viaggi, in Europa. Soprattutto attraverso Francia, Provenza e Italia. E, proprio per questo, era stato chiamato a insegnare ad Harvard. Lingue e letterature neolatine. Dedicandosi, molto, alle traduzioni.
Che restano, a distanza di tanti decenni, il suo lascito più importante.
Una, in particolare. La Commedia di Dante. Perché Longfellow dedicò tutta l’ultima parte della sua vita – funestata da lutti e sofferenze – a tradurre il capolavoro del Poeta fiorentino. La prima traduzione americana. E non lo fece da solo. Infatti, ogni mercoledì, nella sua casa di Cambridge (in Massachusetts, ovviamente) si riuniva un gruppo di letterati, poeti, artisti. Ta i quali spiccano le figure di Oliver W. Holmes e James Lowell. Tutti accomunati dalla passione per la cultura italiana. E, soprattutto, per l’opera di Dante.
Cosciente del lavoro ciclopico cui si stava dedicando, Longfellow sottoponeva le sue traduzioni agli amici. Procedendo ad una sorta di revisione corale.
Quel gruppo prese il nome di Dante Club. E da lì sorse la Dante’s Society statunitense. La più antica di quelle esistenti nel mondo, e, tutt’oggi la più importante. Anche perché riccamente finanziata da donazioni… non come la nostra “Dante Alighieri”, dal secondo dopoguerra ridotta alla canna del gas.. Ed è un portato di questo che alcuni dei massimi dantisti contemporanei siano stati statunitensi. Viene subito in mente il nome di Singleton, che vide in Beatrice, e nell’amore per lei, il vero centro del poema. E quello della sua continuatrice e, in certo qual modo, allieva, Irma Brandès. La Clizia, cantata e amata da Montale.

Ricordare, o meglio scoprire questo filone culturale che inizia con Longfellow, significa vedere, almeno per un attimo, l’altro volto dell’America. Che non è quello, usuale, dei Cowboys privi di cultura e radici. Dei Macdonald’s e del cibo spazzatura. Della propaganda buonista, e ipocrita, hollywoodiana, e della arroganza politica… della pretesa di avere sempre e solo ragione. Della rozzezza intellettuale che fa disprezzare tute le culture del passato. E fa iniziare la storia appena due secoli fa…
Un’Altra America. Fecondata dalla cultura europea, e non solo europea… dalla lettura dei grandi della tradizione. Con poeti come Derek Walcott – che è antillano, ma statunitense di adozione – che rileggono l’Iliade in chiave moderna… come Duncan che ha riscoperto le Odi di Pindaro e vi si è ispirato. Come Williams e Olsen, che hanno cercato di perseguire il poema della modernità, sulla scia dei classici..
E soprattutto come Pound. Che, non a caso, scrisse: Cosa sarebbe l’America se i classici circolassero di più….
Il suo concetto di classici era molto ampio, naturalmente. Andava da Confucio a Arnaut Danielle. Da Omero a Li Po’. Da Callimaco a Cavalcanti. E vedeva Dante come un riferimento fondamentale…
Cosa sarebbe l’America se i classici circolassero di più…
Chissà…forse quei versi tornavano in mente a Ezra, mentre si trovava rinchiuso nell’Ospedale psichiatrico criminale di St. Elsabeth’s…. Cosa avrebbe potuto essere l’America se i classici avessero circolato di più…..