Vi sono luoghi che assumono, nella memoria, una funzione particolare. Luoghi fisici, intendo. Paesi. Particolari di città. Edifici. Paesaggi soprattutto.
Si parla, spesso, di luoghi dell’anima. E anch’io sono, più volte, ricorso a questa espressione. Incorrendo, inevitabilmente, nel comune errore.
Perché parlare di luoghi dell’anima, a ben pensarci, è un errore. In quanto noi non sappiamo cosa sia questa “anima” di cui tanto ci riempiamo la bocca.
Le attribuiamo un miscuglio caotico di sensazioni, istinti, ricordi, sentimenti, gioie e dolori… Ma tutto questo ci dice, al massimo, cosa questa nostra “anima” provi. Non cosa sia.
Ci resta ignota. Vaga. E non conta l’essere religiosi o meno. Avere una fede o un’altra. O nessuna. Non la conosciamo. Anche se, nel bene e nel male, ne sperimentiamo gli effetti. Anzi, da questi effetti lasciamo governare e dominare la nostra vita. Di qui tante incertezze. Tante paure, soprattutto. In primis quella della morte. La più grande. E la più assurda. Perché come diceva Epicuro… ma inutile citarlo per l’ennesima volta. Epicuro usava la ragione. Ma è merce rara. Oggi più che mai. Basta guardarsi intorno per le vie. O ascoltare un telegiornale. Cosa che, per altro, evito accuratamente da ben oltre un anno.
Però se non conosciamo cosa sia l’anima, possiamo ben conoscere i luoghi che in essa risuonano. E come risuonano. E questo diventa, in certo qual modo, strumento per cercare di inverare l’anche troppo abusato motto Delfico. Quel “conosci te stesso” che non è un invito a precipitarsi negli abissi della nostra psiche. Crogiolandosi nelle sue sentine, più o meno maleodoranti.
Si conosce, realmente, solo ciò che riusciamo a vedere come altro da noi. Che diventa per noi oggetto di osservazione.
Il paradosso, quindi, già ben noto agli Stoici – per tacere dei Maestri Zen – è che, per conoscere noi stessi, bisogna che di noi stessi ci dimentichiamo. E conosciamo, osserviamo senza paraocchi ciò che ci circonda. Il paesaggio. I luoghi. Lasciando a loro la parola.
Come, in fondo, nel mito delle stalle di Augia. Per ripulirle non devi sprofondarve dentro. Devi farvi entrare, dall’esterno, il fiume. L’acqua limpida farà tutto il lavoro.
La montagna. Le montagne dell’infanzia e della giovinezza. Quando, per dirla con Ungaretti, ancora ardevo di inconsapevolezza. Guardavo alle cose con il dono, sempre più raro negli anni, di perdermi in loro. Di dimenticare l’ossessione del dialogo con me stesso, su me stesso.
I Laghi alpini. Braies, Misurina, Carezza, Mosigo…. İn cui specchiavo un sognare che mi portava altrove. Soglie, porte da varcare, che davano sull’infinito. Fu lì, per inciso, che cominciai a comprendere Leopardi. Sempre ammesso che lo abbia, almeno in parte, compreso…
In quei laghi, tra quei monti scoprii in me interessi e sogni che mi erano ignoti. Il fascino del mistero. La tensione verso l’amore. Non importa quali volti assumesse. E la necessità, parallela, di fare i conti con la Morte. La partita a scacchi che mai ha avuto termine. Come nel film di Bergman…
Altri monti, e altri laghi, oggi. Dove, periodicamente, torno. Come atratto da un magnetismo – mi si perdoni il volo pindarico – fatale. Altopiano. Laghi. La vetta della Panarotta all’orizzonte. La selvaggia Valle dei Mocheni… Rappresentano più di una vacanza, di un incontro fra amici.
Cene e buvute sotto le stelle di Luglio. È diventato molto, davvero molto più. Un’occasione per sospendere il tempo ordinario in cui sono imprigionato. Per specchiarmi in quei laghi verdi. Per ascoltare le voci del bosco. E quella del vento.
Per dimenticarmi di me stesso. E quindi per conoscermi davvero.
Sto per partire. Forse sto per ritrovarmi. In quei luoghi che mi attraggono in modo irresistibile. Dove vorrei ritirarmi. E, sovente, dove desidero sparire.