A un anno dall’inizio del conflitto in Ucraina, alla cineteca Milano Arlecchino, in via San Pietro all’Orto 9, sabato 25 febbraio alle 17,30 l’inviato del Corriere della Sera, Andrea Nicastro, presenterà il suo ultimo libro, “L’assedio” (Solferino libri), incentrato sulla battaglia all’Azovstal, a Mariupol. E lo farà dialogando con il critico cinematografico Maurizio Cabona. Inevitabile, quindi, che il dibattito sia non solo preceduto dal cortometraggio “Odessa, porto dell’Ucraina”, ma anche che sia seguito dalla proiezione de “La corazzata Potëmkin” che non è la “cagata pazzesca” secondo la definizione fantozziana, bensì una importante opera nella storia della cinematografia mondiale.
Pubblichiamo alcuni passaggi del libro, per offrire qualche prima suggestione sull’impostazione dell’opera.
Ogni capitolo del romanzo di Nicastro è introdotto dal racconto di una sopravvissuta all’assedio, figlia della dottoressa della Brigata Azov. All’epoca dell’invasione era una bambina di 5 o 6 anni e, diventata nonna, racconta al nipotino quel che le successe.
Il racconto della nonna 70 anni dopo è arrivato al punto in cui l’assedio sta per finire e spiega quel che successe a lei in quei giorni e negli anni seguenti.
E’ uno dei pochi brani del libro che si staccano dalle testimonianze reali raccolte dall’autore e lavorano di immaginazione. O meglio, è un brano quasi di fantapolitica perché descrive quel che nessuno sa cosa stia effettivamente succedendo a centinaia di bambini scomparsi nelle zone occupate dai russi. Alcune Ong denunciano adozioni forzate e veri e propri rapimenti, altre pensano a deportazioni nelle aree interne alla Russia per una “russificazione” forzata, altre a una semplice accoglienza in aree più pacifiche.
Pag 119
23 giugno 2092
Una notte stavo dormendo nel mio angolo sotto l’Azovstal e sento qualcuno che mi scuote. Sai com’è il sonno dei bambini, io apro gli occhi, è buio, vedo un’ombra davanti a me, ma capisco subito che è mia mamma. Le sorrido, perché ero felice quando c’era, e mi riaddormento di botto. Lei insiste, mi bacia, mi solleva, mi mette a sedere.
Alina svegliati, cuoricino mio devo dirti una cosa importante.
Gli occhi mi bruciano, distinguo a fatica il contorno del suo viso. Vedo solo il luccichio dei suoi occhi.
Alina, dolcetto, svegliati.
Doveva dirmi che l’indomani ci saremmo separate, ma me lo disse come lo si dice ai bambini.
Tesoro, domani tu e la tata andrete finalmente fuori di qui. Potrai rivedere il sole, potrai giocare all’aperto, mangiare bene, stare al caldo. La tata starà con te fino a che arriverò anche io.
No, mamma, no, non voglio.
Cominciai a piangere, non so quanto piansi, a me sembrò tutta la notte. Povera la mia mamma. Doveva essere stanchissima e la tenni sveglia a consolare il mio pianto. Si stese con me, abbracciandomi. Quando mi risvegliai lei non c’era più. La tata si stava preparando.
Alina, ricorda quel che ti ha detto la mamma, io sono tua nonna, va bene? Come mi chiamo io? Bene, sono tua nonna. Ripetilo. A chiunque te lo chieda devi dire che sono tua nonna. Siamo d’accordo?
Non mi ricordavo affatto che la mamma avesse detto qualcosa del genere, ma ero sola al mondo. E in che mondo…
Dissi a tutti che era mia nonna. Ai soldati russi, ai dottori, ai signori dietro la scrivania, ai signori del centro di filtrazione, a quelli della casa di accoglienza.
Un giorno però la nonna sparì e io mi trovai in un orfanotrofio nella regione dell’Amur, sull’Oceano Pacifico. Improvvisamente cambiò la bugia che dovevo raccontare. Lì la cosa importante era che non dicessi a nessuno che ero ucraina. Me lo spiegò una delle guardiane che mi aveva preso in simpatia e che si sedeva sul mio letto quando ero malata.
A certi bambini qui e anche a certi grandi non piacciono gli ucraini. Non devi vergognarti, non ce l’hanno con te. Non hai fatto niente di male. Russi e ucraini hanno litigato e ognuno pensa di aver ragione. Sono cose che succedono quando i grandi si comportano da bambini. Tu lasciali perdere, non dire cosa sei e loro ti lasceranno in pace. Non è importante se lo dici o no. Tu sei ucraina qui dentro, nel tuo cuore, e sempre sarà così. Non serve che lo dici anche agli altri per rimanere ucraina.
Ho vissuto in istituto quasi dieci anni. E sai una cosa? Quando ero davvero arrabbiata con qualcuno, quando non ne potevo più e mi facevano sbottare, sai cosa mi veniva fuori dalla bocca, come un insulto, il massimo degli insulti?
Ucraino, tu sei solo un ucraino.
Pag 104
Quella guerra rischiava di rovinare tutti i piani di Pavel. […] se finalmente la guerra avesse spazzato via la feccia neonazista di Mariupol, anche gli affari ne avrebbero beneficiato. Da quando otto anni prima le milizie di Donetsk si erano rivoltate contro gli ucraini venduti all’America, non era mai davvero tornata la pace. Quelli di Kiev riuscivano a sparare colpi di artiglieria contro la città di Pavel. C’erano stati civili uccisi mentre facevano la spesa, gente innocente morta nelle proprie case. […] Con questa nuova guerra tutto poteva cambiare di nuovo ed eliminando i nazisti, far rifiorire la città. Pavel era obbligato a combattere, ma in fondo era in gioco anche il suo stesso futuro. Conquistare Mariupol avrebbe reso Donetsk più sicura e, di nuovo, la città più ricca del Donbass.
[…]
Pag 111
Alla sera, nella sua camera di ragazzo, con i genitori in cucina felici di averlo rivisto vivo, prese finalmente il telefonino e chiamò Natalia. Era inquieto, per quelle due settimane si era sentito un piccolo ingranaggio di una macchina poderosa che andava dal Pacifico alla bocca del suo cannone. Tutto l’enorme impero, con la storia, il prestigio, le risorse, l’arsenale, le bombe atomiche era alle sue spalle, a sorreggerlo, incitarlo, renderlo invincibile. Mentre apriva la scatola di legno dei proiettili d’artiglieria, sentiva il respiro delle foreste di abeti da cui veniva il legno, l’umido della torba, le mani callose di chi l’aveva inchiodata. Sentiva i milioni di cittadini che seguivano la guerra in tv, l’orgoglio della storia che si muoveva attraverso le sue dita. In trincea era parte di quel gigantesco tutto, qui a casa, sul suo letto mentre provava a chiamare la fidanzata, si sentì improvvisamente solo con lei. Non più il Paese, i chilometri, le centinaia di città e le tonnellate d’acqua che scorrevano sulle pianure, ma due persone, lui e lei, a fare un mondo loro. Fu come un attimo di vertigine. Gliel’avessero chiesto avrebbe risposto che era innamorato.
[…]
«Natasha, sono io.»
La ragazza sembrava sull’orlo di piangere dalla felicità.
«Pavel, amore mio. Aspetta, aspetta, vado di là.»
Pavel raccontò della guerra. Spiegò come fosse faticoso, giorno e notte, bombardare le posizioni nemiche e come quelli, i nazisti, rispondessero colpo su colpo.
Pag 117
«Speriamo che finisca presto.»
«Sì, che la smettano di spararci e si arrendano. Cosa vogliono ottenere? Noi li potremmo schiacciare in qualunque momento. Basterebbe premere il pulsante rosso dell’atomica e addio Mariupol. Non capisco perché continuino a resistere.»
«Sono dei fanatici, lo sai.»
«[…] Se non gli sta bene la nuova situazione se ne possono anche andare, no? Noi siamo diversi, abbiamo la nostra cultura. Posso dirti? Come donna preferisco un Paese di gente vera, con l’uomo che fa l’uomo e la donna che fa la donna. Tutti quegli omosessuali e trans glieli lascio volentieri ad americani e francesi che gli piacciono tanto.»
«Vinceremo, Natasha, questa volta vinceremo. Ci libereremo dalla cricca di nazisti e servi dell’America. Stavolta a Mosca fanno sul serio.
[…]