I neolaureati italiani risultano essere i lavoratori meno pagati in Europa. Un mercato del lavoro che sicuramente non premia chi investe negli studi.
In un mondo del lavoro che evolve a velocità della luce, lo “skill mismatch” (ossia un disaccoppiamento tra domanda e offerta di lavoro sul mercato che nasce da uno scollamento nelle competenze e che mina la competitività del sistema Italia) è diventato una piaga globale. Secondo un recente report di Boston Consulting Group (“Fixing the Global Skill Mismatch”), il disallineamento tra le competenze richieste dalle aziende e quelle di cui sono in possesso i lavoratori colpisce addirittura 1,3 miliardi di persone al mondo, riducendo del 6% la produttività del lavoro.
È triste apprendere che il nostro Paese è il terzo al mondo con il più alto disallineamento tra le discipline scelte di studio dai giovani e le reali esigenze del mercato del lavoro. Studiare è sempre importante, ma quando si sceglie l’università è bene sapere che ci sono alcune lauree utili e altre inutili. È l’economia digitale a dettare legge perché sta modificando profondamente il mondo del lavoro, rendendo obsolete figure che oggi si possono automatizzare.
La pandemia ha aggravato lo skill mismatch e intima di ricostruire il capitale umano del futuro.
L’Italia inoltre ha anche la più bassa percentuale di laureati in Europa: questa scarsità però non si tramuta in un vantaggio del mercato del lavoro per i nostri studenti.
Nella classifica europea degli stipendi dei neolaureati ancora una volta l’Italia è nelle ultime posizioni. I laureati italiani risultano tra i meno pagati d’Europa assieme a spagnoli e polacchi. Sarà per questo che molti fuggono all’estero per trovare lavoro.
Si intraprendono corsi di studi non utili alla ricerca di un’occupazione. Ad esempio c’è poca offerta e molta domanda in alcuni rami come: informatica, medicina, ingegneria; e invece c’è una offerta numerosa e, tolta la scuola, una domanda praticamente nulla per altri indirizzi come filosofia, lettere, scienze politiche.
La tesi che, nel dibattito pubblico, trova più valore è quella proveniente dall’area confindustriale: la colpa è dell’università italiana che non forma in maniera idonea i laureati per le esigenze del mondo del lavoro (il leggendario mismatch). Una tesi però, spesso smentita dal grande successo dei laureati italiani all’estero, dimostrando l’incapacità del sistema produttivo italiano ad assorbire personale altamente qualificato.
Una parte importante della risposta all’anomalia italiana potrebbe quindi venire dagli stipendi relativamente bassi erogati dallo Stato. Ma non solo, la politica non ha aiutato i nostri giovani, avendo mostrato di prediligere l’approccio assistenzialista: pensiamo al concetto di reddito di cittadinanza che, nella sua attuale implementazione, non funziona nel rendere dinamico e competitivo il mercato del lavoro, ovvero nell’accrescere le competenze e aumentare l’occupazione e la competitività delle imprese italiane.
Un sistema formativo che è un passo indietro rispetto al mercato nell’alternanza scuola-lavoro. Persone che non arrivano preparate a lavorare in organizzazioni strutturate, con una mentalità che non vede istruzione e carriera come due mondi in continuo dialogo. Un esodo umano di lavoratori che compromette la capacità competitiva del nostro Paese.