A cosa si lega la nostra memoria? Cosa scandisce i tempi e le epoche della nostra vita?
Le risposte possono essere molte. E diverse. I luoghi. Gli oggetti….le case.
Non ho detto le persone, le amicizie, gli amori e i rancori, perché queste sono altra cosa. Sono sentimenti che si prolungano al di là del tempo. Anzi, attraverso il tempo. Sono ricordi. Nel senso etimologico del termine. Qualcosa che ritorna al cuore. E vi ha risonanza.
La memoria, invece, si lega alle cose. Apparentemente inanimate, ma dotate di un loro mistero. Di un potere segreto.
Tra queste, dicevo, le case dove abbiamo vissuto. E dove altri hanno vissuto prima di noi.
Mi viene in mentre un libro suggestivo e struggente. “La casa della vita” uscito da una delle più grandi penne italiane. Mario Praz, che la malevolenza, e l’invidia, del meschino mondo accademico italiano, aveva soprannominato l’Innominabile. Tacciandolo di essere un, temibile, jettatore. Cosa su cui lui stesso ironizzava, assumendo atteggiamenti sulfurei. In sintonia con la sua grande opera su “La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica”.
Ma quando parla della sua, amata, casa, assume toni lirici. Un lirismo ispirato ai saggi di Lamb, di cui fu grande traduttore. Un lirismo che si trasforma in viaggio della memoria. Dove ogni mobile, ogni oggetto evoca immagini, situazioni, sentimenti. Emozioni.
Ogni casa in cui vivi lascia in te echi. .. È come se, in fondo, non l’abbandonassi mai. O meglio, che lei, la casa, continuasse a trattenere una parte di te. Che tu, pur a distanza di anni, continuassi a muoverti in quelle antiche stanze. A viverle.
Della prima casa della mia infanzia ho un ricordo fiabesco. Fatto di frammenti di immagini. Mi ricordo una sala letteralmente gigantesca. Che non è mai esistita. Perché, nella realtà, era di dimensioni medie. Ma a me appariva… enorme. Come le cucine del Castello di Fratta al piccolo Carlino Altoviti, nelle Confessioni di Nievo. Una lunga terrazza protetta da una rete. E un luogo magico, due bauli, uno di legno mogano, l’altro verde con le maniglie di metallo dorato e le borchie. Dove mia madre allestiva, a Natale, il Presepe.
Poi la casa dove sono cresciuto. Un ricordo più nitido. I mobili di color noce. Le grandi librerie che coprivano gran partie delle pareti. Rigurgitanti di libri. I quadri e i piatti dipinti alle pareti. Piatti che erano giunti dalla casa del bisnonno Enrico. E che lui aveva ereditato da suo nonno. E questi… Insomma si risaliva alla fine del ‘700. Generazioni. Ovvero, secoli. I pavimenti di marmo della sala. Coperti da due grandi tappeti. Un persiano. Un Bukhara, almeno credo.
Guardando quegli strani disegni, figure stilizzate di animali fantastici, versetti del Corano in cufico, cominciai a sognare l’Oriente… E il parquet di legno d’abete nelle stanze. Che profumava di bosco e montagne . E scricchiolava sotto il passo…
La casa poi, che non ho mai davvero vissuto. Ma che mi ero fatto costruire quasi su mia misura interiore. Il grande terrazzo che si affacciava sul giardino. Il vestibolo, piccolo, e subito un ampio spazio unico. Vuoto. Le pareti spatolate a tinte vivaci. Lasciata senza davvero viverci mai. Un errore evitato all’ultimo. Non la casa… altro era l’errore…
Poi, il mio appartamento da scapolo. All’ultimo piano di un vecchio edificio senza ascensore. La stampa de l’Aereoplano di Sironi che mi accoglieva appena aprivo la porta d’ingresso. Le luci con lampade a stelo e applique, nessun lampadario… la cassapanca e la console in stile ‘700 veneziano, in legno antico, un gioco di bianco avorio e azzurro acquamarina. Il tavolo ovoidale color mogano, e i due divani rosa salmone comprati ad una esposizione, per un prezzo stracciato… Il tappeto era sui toni dell’azzurro. Il tavolino da fumo nero smalto. Forse la casa che più mi assomigliava. In cui mi sono specchiato. Con quella follia di un bagno color viola prugna, le mattonelle dello stesso colore, ma screziate in oro. E un’enorme specchiera.
E poi questa. Dove ora abito. Ma che mai ho davvero vissuto. Estranea, in fondo. Fredda. Troppo bianco e troppo metallo. Solo il divano con penisola mi è davvero caro. Ove ora siedo, scrivendo.
La meno amata, per usare un eufemismo. L’ultima, per ora. Domani… Chissà.
In fondo, aveva ragione Bruce Chatwin. Dobbiamo reimparare a viaggiare leggeri. I nostri, remoti, antenati, erano nomadi. E portavano con loro lo stretto necessario. Il resto, era solo memoria.