Orhan Pamuk. Forse il più grande scrittore turco vivente. Dico forse perché, non possedendo la lingua, non sono in grado di appurare e verificare. Dovrei chiedere al mio amico Fabio Grassi, uno dei più colti, e raffinati, turcologi (si dice così?) che abbia avuto il nostro paese. Che in materia di studi “orientali” ha una tradizione luminosa, nonostante l’insipienza degli ultimi, si fa per dire, governi che, per fare solo un esempio, hanno lasciato ai topi e alle muffe la Biblioteca del, glorioso, ISMEO…
Questa, però, non vuole essere una polemica, bensì una fiaba. Una fiaba del Solstizio. Che parla, appunto, della Neve. Di quel manto incantato che, come scrisse Gibran, rende ogni paesaggio più… bello. Magico. E la neve, pensare alla neve, mi ha fatto correre con la mente a Pamuk. A quel suo romanzo che, appunto, semplicemente “Neve” si intitola.
Una storia complessa. Dove la vicenda personale di un poeta di cultura europea, che torna nella terra delle sue radici, e ritrova un antico amore, si intreccia con il travaglio storico di un paese, sospeso fra due mondi. Quello moderno, occidentale se vogliamo. E una profondità anatolica ove urgono tensioni etniche e religiose. Un gioco di violenti contrasti, narrato con il passo, suggestivo, del thriller e, a tratti, della spy story. Una grande saga… Che mi ha fatto pensare che, per una volta, quei barbogi dell’Accademia di Svezia non hanno sbagliato nell’assegnare il Nobel per la letteratura…
Tuttavia quello che mi è restato, di quel libro, è soprattutto la costante presenza dei paesaggi innevati. In un contesto al quale non sono, non siamo adusi. Perché, in fondo, immagini di villaggi coperti di un manto candido, di impronte di passi umani e di zoccoli di cervi che segnano un, altrimenti, invisibile sentiero, di laghetti ghiacciati e bambini che giocano e pattinano, mi riconduce, comunque e sempre, ad un immaginario fiabesco. Ad una iconografia natalizia desunta da vecchi biglietti d’auguri ormai ingialliti, dai cartoni animati della Disney, dai Villaggi d’inverno di ceramica che servono ad addobbare le case… uso laico, venuto dalle profondità dell’occidente anglofono, a surrogare il nostro Presepe.
Insomma, paradossalmente, l’immagine della neve evoca una sensazione festosa, di calore, di poesia sentimentale e oleografica. Fors’anche un po’ sdolcinata…
Mentre nel romanzo di Pamuk…
Certo, mi si potrebbe dire che “gialli” e romanzi di spionaggio sullo sfondo di paesaggi innevati si sprecano. E, quasi sempre, raccontano storie dure e forti. Penso a “Il senso di Smilla per la neve” di Peter Høeg, tra i più felici della recente scuola di narratori scandinavi. O, ancora più indietro negli anni, il famoso “Gorky Park” di Martin Cruz Smith e l’ancora più efficace “Piazza Rossa” di Topol e Neznansky… Cupe e affascinanti storie di potere e spie nel crepuscolo dell’impero dei Soviet…
Tuttavia nessuno di questi libri mi è restato dentro come “Neve” di Pamuk. Forse perché lo scrittore turco è riuscito a conciliare la durezza della realtà storica, e la crudeltà dell’esistenza, con un’atmosfera da fiaba. Perché ti fa guardare alla realtà con occhi diversi. E la neve tutto trasfigura. Tutto avvolge di magia. Il mondo assume sfumature diverse. Le voci si espandono in un silenzio… sovrumano. La percezione delle cose, degli uomini e delle loro vicende muta. Diviene più ricca. E più profonda. Ti permette di cogliere che la realtà non è solo ciò che appare. Che vi sono altri piani. Altre dimensioni….
Magia della neve. Incontrata in un romanzo turco. Fiaba di Natale, scritta da chi il nostro Natale non attende. E che ti fa guardare ai drammi della vita, e della storia, con occhi diversi. Occhi capaci di andare oltre il disegno, rigido e definito, delle cose. Capaci di perdersi nell’immensità sognante di un paesaggio innevato…
Photo credits by Maria Infantino