Origami. Vedo un post, di un’amica. Che ama la cultura giapponese. È un uccello. Un grande uccello acquatico. Sembra un cormorano, col collo e le ali piegate come in una danza. Ed è di, candida, leggerissima carta. Piegata, compressa, plissettata. È un origami. Esempio dell’antica arte giapponese.
Arte che mi ha sempre affascinato. Per la bellezza degli oggetti, figure che trae, in sostanza, dal nulla. Da un semplice foglio di carta. E che hanno una vita breve. Brevissima. Perché non nascono al fine di durare. Solo per donare un attimo di incanto. E tornare, subito, nel nulla. Un pezzo di carta appallottolato. Ormai inutile.

Ed è proprio qui la ragione principale del fascino dell’Origami. Nell’effimero. Che rappresenta, perfettamente, una concezione, anzi un atteggiamento dello Spirito. Diverso, distante anni luce, da quello che informa la nostra cultura.
Perché noi costruiamo con la pietra, e avremmo la pretesa che le nostre dimore, i nostri monumenti, durassero per un tempo infinito. Eterno, se fossimo capaci di concepire l’idea di eternità. Stabile. Statico.
Le antiche dimore giapponesi erano fatte con pannelli di carta. E così i templi buddhisti e scintoisti.
Per i terremoti, si dirà. Per convivere con l’incombente minaccia sismica. Forse… anzi, è innegabile che ogni cultura si adatti alla terra in cui sorge. O per lo meno, era così quando non eravamo ancora totalmente invasati da una perversa ybris…
Tuttavia, proprio il legame con la terra ci porta ad altro. A forgiare un modo diverso di vedere le cose. Una terra instabile, che nega la sicurezza all’uomo, può essere una grande maestra. E spiegare il senso, profondo, di un’estetica, di una concezione della bellezza che si fonda sull’effimero. E che trova nella concezione dell’impermanenza – centrale nel Buddhismo Zen – la sua veste filosofica. O meglio, sapienziale.
Così la leggerezza diventa il segno distintivo di una civiltà che è, certo, sulla terra, ma che nella stabilità di questa terra stessa non può fidarsi.
Il Kimono di pura, quasi impalpabile seta. Eppure tiene più caldo di tanti pastrani e maglioni. E non pesa, e non dà il senso di soffocamento che induce al sudore…

I Mandala, giunti dalle valli misteriose e inospitali del Tibet. Certo, a volte affrescati, o dipinti su carta di riso. Ma, spesso, tracciati al suolo con sabbie e ghiaie dai colori vivacissimi. E sono opere fantastiche. Di straordinaria bellezza. Figure animali, umane, Buddha e Bodhisattva… E geometrie intricate. Iridescenti. Incantano. Per un attimo, dopo essere stati composti. Poi l’artefice stesso lo distrugge. O lascia che a farlo sia il vento. Come le sculture di sabbia sulle nostre spiagge. O come l’antica arte dei “madonnari” girovaghi. Che da bambino vidi tracciare sui marciapiedi autentici capolavori. Che duravano, però, lo spazio di un mattino, presto dilavati dalla prima pioggia. Ma loro, gli artefici, se ne andavano comunque felici. Non per le poche monetine raccolte, ma perché l’importante era l’atto creativo. Non l’oggetto creato. Che è solo illusione possa sopravvivere al tempo.
Abbiamo perso questa coscienza. Prigionieri di una tracotanza che ci illude della immortalità di tutto ciò che produciamo. Anche dell’immondizia. Fatta soprattutto di involucri di plastica. Destinati ad inquinare per secoli la terra e il mare. Siamo la civiltà, se così è lecito definirla, dell’usa e getta. Del futile e del superfluo. Incapaci, però, di cogliere la bellezza dell’effimero. Un origami, un mazzo di fiori disposto artisticamente secondo le regole dell’ikebana. Antica arte, praticata dai samurai accanto a quella della spada. Perché, a ben vedere, affini. Entrambe legate ad una visione dell’attimo. Bellissimo e fugace. E che, però, se colto rappresenta l’unica esperienza dell’eternità.

L’attimo inseguito da Faust attraverso lo spazio ed il tempo. Giocandosi l’anima con Mefistofele. Perché, se colto, quell’attimo effimero è la porta che conduce oltre lo spazio ed il tempo ordinari. Sconfigge la morte. La grande ossessione dell’ uomo moderno.
È l’esperienza ineffabile della bellezza.
Come in un cormorano di carta. O in un haiku di Basho. Fatto più di vuoti e silenzi che di parole…