Tito Angelini lo ritrae, a matita, sul letto di morte. Sembra un vecchio, consumato da una lunga vita… e, invece, aveva solo 39 anni.
Giacomo Leopardi si spegneva, come si suol dire, il 14 giugno del 1837. A Napoli, città che non amava. O meglio di cui amava clima e natura… ma non i ceti intellettuali. Che considerava superficiali. Incapaci di andare oltre le mode del tempo. Tutti pronti ad entusiasmarsi per una, effimera, idea di progresso… tutti patriottici e animati dal Sacro Fuoco.
Comunque, l’ultimo Leopardi ben poco o nulla ha, ormai, a che spartire con quello giovanissimo, della Canzone all’Italia. La sua visione della storia, e della politica, si è andata progressivamente accostando a quella di suo padre. Il tanto calunniato conte Monaldo. Lo attestano le lettere, e, soprattutto, la feroce satira “I nuovi credenti”.
Ed è strano, perché, a ben vedere, il poeta si avvicina ad un giudizio su questi intellettuali presi da fervore patriottico, che era di uno molto lontano da lui. Non certo un poeta. Ferdinando, o’ re bomba. Che aveva detto che, a Napoli, l’Unità d’Italia la sognavano solo “pennaruli e palette”. Scribacchini e avvocati.
Certo, Giacomo lo dice meglio. Ma la sostanza non cambia.
Pochi poeti, scrittori, artisti hanno visto la loro storia personale falsificata come quella del Recanatese. Fraintesa e falsificata. E proprio dai molti che ne hanno esaltato la poesia. E fatto di lui un mito. Perché la vita di Leopardi viene sempre raccontata attraverso una serie di specchi deformanti..
A partire dalla morte. Si racconta, nei libri di scuola, che il poeta, già minato nel fisico da molte malattie, morì durante l’epidemia di colera a Napoli.
Bene, egli certo non godeva di sana e robusta costituzione… e a Napoli, nel suo secolo, il colera era endemico. Ma non fu quello a dargli il colpo di grazia. Piuttosto, una indigestione, un’autentica abbuffata, di gelato mantecato alla crema. Di cui era ghiottissimo. Ma dire queste cose, sembra brutto. Sembra volerlo svilire. Come se la morte per colera, e quindi per dissenteria, lo nobilitasse. Fosse più estetica.
Almeno, ho sempre pensato, se ne sarà andato contento…
E non era cupo affatto. Anzi… un carattere vivace, un conversatore ironico e brillante. Uno spirito critico eccezionale.
Gli piacevano le donne. Molto. Ma non ebbe mai molta fortuna. Innamoramenti silenziosi. Innamoramenti non corrisposti… però cercare di farne un mito della castità, o peggio una sorta di icona del Gay represso, è quanto di più falso.
Nell’epistolario vi sono gustose descrizioni dei bordelli…nnon credo che vi andasse solo per trarre ispirazione letteraria.
I suoi Canti sono un capolavoro assoluto. Vero, almeno in parte. Perché la lirica di Leopardi è un distillato puro, che gli costò immensa fatica.
Un pugno di versi perfetti. Callimaco, che amava, sarebbe stato orgoglioso di lui. Anche se nella raccolta vi sono composizioni, vedi la Canzone all’Italia, che sono di Leopardi solo perché c’è scritto il suo nome…
La poesia gli costava fatica. E conosceva lunghi periodi di sterilità e silenzio.
È, invece, un prosatore gigantesco. Le Operette Morali, i Pensieri, l’immenso Zibaldone sono il più grande monumento della prosa d’arte italiana. Perfetta ogni pagina. Ogni riga.
E sono, nel loro complesso, una grandiosa opera di pensiero… un filosofare instancabile, lucido… disperato. De Sanctis intuì il parallelo con Schopenhauer. Colli dimostrò l’influenza di Leopardi su Nietzsche. Severino gli ha dedicato due delle sue opere più intense… eppure si continua a non considerarlo un filosofo. Il pregiudizio di Croce, ereditato da Gramsci. A scuola lo spiega il prof di italiano. E, se Crociano o gramsciano, in genere fa intendere che era infelice. Tradotto: pessimista perché gobbo.
Invece, ebbe il coraggio di guardare, con lucidità disperata, al nulla verso cui correva la, cosiddetta, civiltà occidentale. Ma questa disperazione non si tramutò in paresi, cinismo… forse neppure in una forma di nichilismo. Il senso della meraviglia e della bellezza fu, in lui, sempre più forte..
Amava conversare con la Luna. Alcuni dei suoi versi più felici sono frammenti di questo, ininterrotto, dialogo. Di una sorta di amore per il mistero e l’infinito.
Strano, molti decenni dopo, nello stesso giorno , il 14 giugno del 1986, moriva un altro grande poeta e grande prosatore. Innamorato della Luna. Un altro che seppe contemplare il nulla… e scoprirvi il mistero della bellezza.
Jorge Luis Borges.