Maleirouzo prèso! Maledetta fretta! Chi è vittima della fretta, chi non ha tempo per fermarsi a pensare a qualcosa di più profondo rispetto al Grande Fratello Vip, non è il caso che si dedichi alla lettura del romanzo di esordio di Valeria Tron, “L’equilibrio delle lucciole”, edito da Salani. Quasi 400 pagine (18 euro) per una ricerca interiore che è anche una ricerca sulla sopravvivenza di un piccolo popolo alpino che vede scolorire la propria anima man mano che abbandona i villaggi a monte per intrupparsi sempre più nella routine e, soprattutto, nelle logiche del piano e delle città.
Valeria è artigiana, disegnatrice/illustratrice, musicista. Ora anche scrittrice che porta, nel suo libro, anche la sua lingua. Un patois facilmente comprensibile da chiunque conosca una qualsiasi variante occitana o anche francoprovenzale. Ovviamente si tratta solo di brevi inserti, peraltro tradotti, che riportano alcune conversazioni dei protagonisti. Il resto è scritto in un italiano barocco, che ricorda lo stile di Pietrangelo Buttafuoco. Dalle Alpi piemontesi alla Sicilia profonda. Con sonorità diverse, ma con la medesima ricerca della parola. Valeria le trasforma, le parole. Mescolando persone, animali, alberi, montagne, fiori. Gli aggettivi che caratterizzano una pietra sono utilizzati per descrivere una donna, uno stato d’animo. In fondo tutto fa parte della stessa natura, compresi gli oggetti realizzati dalla fatica umana.
L’equilibrio delle lucciole è il racconto di un ritorno in un paese che non esiste più, dove è rimasta solo una vecchia donna con i suoi ricordi. E la protagonista, che di quel paese è originaria, torna a cercare se stessa e si ritrova depositaria delle storie di tutti coloro che l’hanno preceduta. Un passaggio di testimone non sempre facile, a volte doloroso. Come è stata, spesso, dolorosa la vita su quei monti. Per l’asprezza dei luoghi che forgia le persone che ci vivono. Una comunità che, nella realtà, non è stata particolarmente amata in Piemonte. I valdesi, i barbet. Protestanti, ma la diffidenza nei loro confronti andava oltre l’aspetto religioso.

Perché questa parte delle Alpi – l’Occitania alpina ma anche quella del Midi francese, sino ai Pirenei ed anche alla Catalogna o, in direzione opposta, sino al nord del Piemonte – è sempre stata terra di grandi eresie. Terra eterodossa, come ribadisce spesso Mariano Allocco, montanaro di una vallata poco distante da quella di Valeria. Dunque a livello popolare non è mai stato un problema il credo religioso. Tranne che nei confronti dei barbet. E questo ha isolato ulteriormente la comunità.
Nel libro, tuttavia, l’elemento religioso non è assolutamente rilevante. L’isolamento sì, ma dovuto a fattori economici, di comodità, di fascinazione della città. Ed anche alla difficoltà, di chi è estraneo a questo mondo, di comprenderlo davvero. Tron vuole comunque lasciare un segnale di speranza. E racconta di un “estraneo” che, per amore, impara a capire questo mondo fuori dal mondo. Un mondo che maledice la fretta, che recupera i tempi, la bellezza, la luce.
Però resta difficile condividere questa speranza di Valeria. Un paese abitato da una coppia non più giovanissima rappresenta davvero un segnale di riscossa? “Un paese – scriveva Cesare Pavese – vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Bastano davvero le piante e la terra, se non c’è più la gente?