Mentre i talebani, dopo aver conquistato un villaggio dopo l’altro, sono giunti nella capitale afghana Kabul, l’Ue assiste alla drammatica rinascita dell’Emirato Islamico con senso di impotenza e scarsa influenza.
E’ il Vecchio continente l’attore che subirà prima di tutti le tragiche conseguenze delle vicende in Afghanistan. Tuttavia Bruxelles non è in grado di proporre una risposta convincente alla crisi. Le cause vanno ricercate nei suoi (scarsi) poteri in politica estera e in Paesi membri che si muovono alla rinfusa. Sullo sfondo, una permanente mancanza di visione strategica.
Il tributo pagato
Dall’inizio della missione NATO, con 4 miliardi allocati, l’Afghanistan è il maggiore beneficiario di aiuti dell’Unione europea. Venti anni di risorse spese, volte a stabilizzare il Paese nel tentativo di dotarlo di istituzioni democratiche. Sfumate nel giro di due settimane.
Senza pensare al tributo economico e, soprattutto, di vite umane pagato dai Paesi europei che hanno partecipato alla missione. Solo l’Italia dal 2003 al 2021 lascia 53 caduti ed oltre 8 miliardi erogati.
L’ondata migratoria
La caduta di Kabul rischia di far esplodere l’emergenza migranti. Bruxelles è preoccupata per le conseguenze sui flussi provenienti dall’Afghanistan verso il Continente. Una rotta già calda se si considera che nel 2019 e 2020 gli afghani sono la prima nazionalità per arrivi irregolari nell’Unione. “E’ sciocco pensare che quanto sta accadendo non peserà sulle politiche migratore – dichiara il ministro degli esteri tedesco – attendiamoci nuove ondate di migranti molto più ampie del passato”. E se una risposta da Bruxelles non c’è, le Capitali procedono in ordine sparso. Olanda, Austria, Belgio e Germania si sono affrettate a scrivere alla Commissione Ue per chiedere di non fermare i rimpatri dei migranti afghani irregolari. Nell’idea che questo possa fare da deterrente per futuri arrivi in Europa. Il problema è che i rimpatri presuppongono accordi fra Ue ed autorità afghane riconosciute, e queste ultime sono in caduta libera. E, se l’obiettivo è indurre a cambiare idea a quanti da Kabul volessero giungere in Europa, rimane impensabile che una tale mossa basti a frenare gli afghani che stanno lasciando il Paese – assaltando aeroporto e convogli – pur di non restare nel nascituro Emirato talebano.
Il caso dei collaboratori
Uno degli aspetti più tragici della vicenda è la sorte di quanti hanno lavorato collaborando con militari e diplomatici occidentali in Afghanistan, il cui destino è segnato se restano nel Paese. Su questo gli Stati membri cercano di muoversi ognuno attraverso i propri canali. Ma ci sono anche quanti hanno lavorato per l’Ue. Secondo il braccio diplomatico europeo, il Servizio per l’Azione Esterna (a guida italiana), più di 100 sono le persone impiegate a nome Ue per un totale di 400 tra staff e familiari. Ma anche qui stallo: l’Unione non può di per sé concedere visti di ingresso, perciò sta spingendo perché siano gli Stati a farsene carico, mentre in loco la situazione degenera di minuto in minuto.
La carta turca
Con il trascorrere delle ore e il precipitare degli eventi, comincia a farsi largo tra i palazzi Ue l’idea di affidarsi alla Turchia, quale forza cuscinetto sia per fermare gli arrivi dei migranti, sia come supporto sul campo. Un copione abbastanza noto. Ma almeno per il momento entrambe le parti tentennano. Specie a Bruxelles in molti temono di offrire il fianco a un rafforzamento del ruolo internazionale di Erdogan, come accaduto in Siria e Libia.