“Papà, ma perché tutte le cose cambiano?” mi fissa con quegli occhi nerissimi. Di una profondità che, forse, solo io riesco a cogliere. Almeno a tratti.
“Cambiano sempre… – scuote la testa – a te piace una cosa, un posto…vuoi bene a qualcuno… ed ecco che sparisce. Non c’è più. Non mi sembra…giusto”.
Già….è espressa in modo infantile. Però….mi stupisce. Non per la prima volta. Perché, in fondo, è un discorso che emerge spesso. E non solo nei momenti tristi. Anzi…
Solo pochi giorni fa, lei mi diceva
“Si sta così bene qui…” eravamo seduti al caffè della Piazza. E stava guardando in alto. Verso il Castello, nella luce, tersa e intensa, di un tramonto di Ottobre.
“Sono così felice…ma la vita non è tutta così. I momenti di felicità sono illusione. Il resto, il quotidiano… Perché non può essere sempre così?”
In fondo, con altre parole, è lo stesso discorso.
Che rispondere? A entrambi…sempre ammesso, e, come si suol dire, non concesso, che io abbia una risposta. O che sia in grado di fornirla ad altri…
Mi viene in mente…il Buddha. Chiariamo subito. Io non sono un buddhista. O meglio, non inseguo certe mode orientaleggianti, New Age o come diavolo si dice oggi, non pronuncio Aum con aria estatica, non mangio macrobiotico o, peggio, vegano….però il buddhismo è una cosa seria. Una grande scuola di pensiero. A partire dai Discorsi dell’Illuminato. Che ho letto una vita fa. In buona parte nella traduzione di Pio Filippani Ronconi. E per arrivare, poi, alle grandi scuole filosofiche di Nalanda. Ad Asanga, Vasubandhu, sopratutto Nagarjuna. Che sta al pensiero orientale come Aristotele al nostro. E che, certo, non è particolarmente noto (per usare un eufemismo) agli improvvisati guru del web…
Comunque, nella dottrina buddhista vi è, fondamentale, il concetto di impermanenza. Tradotto in soldoni, tutto muta. Continuamente. Nulla è stabile. E quindi, tutto è solo illusione. Il famoso Velo di Maya, che colpì Schopenhauer.
Tuttavia, è illusione la felicità così come il suo opposto. La gioia e il piacere, come la sofferenza e il dolore. E quindi la vita va presa non troppo sul serio. Con…distacco. Con l’ineffabile e misterioso sorriso delle statue del Buddha nelle rappresentazioni dell’arte greco – indiana del Gandhara.
Come si può giungere a questo? Non lo so. Non sono un guru. Né, tantomeno, un Maestro. Però ho capito una cosa. Se il vivere fosse sempre uguale, uniforme, senza alternanza di gioia e dolore, sarebbe…monotono. E quindi non sarebbe vita. Saremmo morti. Esenti dalla sofferenza, forse. Ma, sicuramente, incapaci di apprezzare la felicità. Le cose belle. La gioia.
Ho provato a dirlo. A entrambi. Con parole diverse.
Mio figlio mi ha guardato pensoso. Ha scrollato le spalle. E si è messo a fissare una ragazza che passava…beh, ha quell’età…per fortuna.
Lei, ha guardato il sole che tramontava dietro al Castello. Poi…mi ha sorriso. E io ero felice.