Dunque… siamo in guerra. Facciamo finta che non sia così… ci continuiamo a raccontare la frottola della “Costituzione più bella del mondo”, che” ripudia la guerra” e altre fanfaluche. Ma in guerra ci siamo. E lo sa bene chi governa, anche se finge che non sia così. Almeno, spero che ne siano coscienti. Altrimenti sarebbero solo degli zombie decerebrati. E sinceramente preferisco gli ipocriti. Che è tutto dire…

Ora, di questa strana guerra, che si finge essere cosa di altri, mentre ne siamo coinvolti sino al collo, ho già parlato più volte. E non ho molta voglia di partecipare al dibattito delle opposte tifoserie…. filare nebbia non è mai stato uno dei miei passatempi preferiti. La guerra c’è. Noi vi siamo coinvolti e partecipi. Schierati su uno dei due fronti. Punto. Le valutazioni morali, il giusto e lo sbagliato, le fole sul diritto internazionale e simili le lascio ad altri. Io mi limiti a prendere atti della realtà. E a cercare di osservare come, questa guerra che fingiamo non ci riguardi, si stia insinuando nel nostri modo di pensare. E modifichi il nostro modo di vivere.
E la prima cosa che sta mutando – in modo sottile, eppure vorticoso – è il nostro modo di parlare. Il nostro linguaggio.
Perché le parole rivelano il nostro modo di percepire e concepire le cose. La realtà. E questo, se permettete, è Hegel.

Ora, ci siamo abituati a leggere, su social, comunicati ufficiali ed altro: neutralizzate venti (o quaranta, o cento..) unità militari. E la cosa è diventata tanto usuale, quotidiana, da lasciarci, in buona sostanza, indifferenti. Come se ci venisse detto che, ad Ostia, sta piovendo.
Ma cosa significa quella frase? Che sono morti, ammazzati, degli uomini. Molti. E molti muoiono così ogni giorno. In quello, ad esempio, che viene chiamato il “calderone” di Bakhmut. Altro termine apparentemente asettico. Prigozhin, il capo della Wagner, preferisce, però, parlare in modo più deciso. Usa la parola “tritacarne”. Che, però, sui nostri Media risuona di rado. Perché potrebbe suscitare… orrore.
Che sarebbe, poi, l’emozione più naturale. Più umana. Perché quello che sta avvenendo – a Bakhmut e su tutti il fronte del Donbass – è un vero e proprio macello. Dove intere generazioni di ucraini stanno venendo da mesi mandate al massacro. Per tenere una posizione “simbolica”. Dare al mondo la sensazione che Kiev è in grado di resistere e respingere i russi. Illusione importante. Perché, altrimenti, molti paesi potrebbero cominciare a pensare che foraggiare ancora di armi e denaro l’Ucraina sia inutilmente dispendioso. E già di questo mutare di atteggiamenti si vedono alcuni segnali.
Se ciò accadesse per Zelensky e i suoi sarebbe la fine. La fine politica, ed anche di uno sfrenato arricchimento personale.
Per cui meglio mandare tanti giovani nel calderone. A farsi massacrare dal tritacarne del “cuoco di Putin”.

Nella realtà, per quanto limitata nella dimensione spaziale, questa è, con ogni probabilità, la guerra più sanguinosa e feroce combattuta dopo il 1945. Una guerra che non ha nulla dei, cruenti ma veloci, blitz in Iraq e Serbia. Ed è guerra di posizione. Di sfinimento. In cui si cerca di logorare il nemico. Distruggendo le sue risorse. Materiali e… umane. In sostanza rischia, ogni giorni di più, di trasformarsi in una guerra di annientamento. Dove sarà vincitore chi avrà distrutto totalmente le “riserve umane” del nemico. Ovvero che avrà massacrato tutte, o quasi, le sue truppe.
Stando così le cose, e viste le diverse proporzioni tra Russia e Ucraina, l’esito non può essere che uno e uno solo. Scontato.
È un gioco al massacro. Persino privo di intelligenza strategica. Che va, in buona parte, imputato a Zelensky. Che si ostina in una guerra di posizione, sconsigliata, per altro, dai suoi stessi “consigliori” del Pentagono.
Ma noi anestetizziamo tutto con un linguaggio apparentemente “tecnico”. In realtà intriso di una indifferenza che, sinceramente, mi fa più orrore della guerra stessa.
Chiamiamo “guerra di logoramento” quello che dovremmo definire massacro, carneficina…
Proxy war (quanto utile l’inglese per mistificare ciò che accade!) il far combattere ad altri le proprie guerre. Per non avere perdite dirette. Ciò che Washington sta facendo grazie ai pupazzi al potere a Kiev.
“Danni collaterali” la morte di bambini e innocenti inermi, sotto le bombe. Sta avvenendo dal 2014 nel Donbass, ben prima dell’intervento russo. E prima ancora di tali “danni” ci hanno detto in Serbia, in Iraq, in Siria…
Potrei continuare a lungo. Il vocabolario di questo modo di concepire la guerra, che ce la fa sembrare pulita e politicamente corretta, diventa ogni giorno più lungo.

Invece… preferisco pensare a… Tamerlano. Timur Lang, Timur lo Zoppo. Il signore di Samarcanda. Uno dei più grandi conquistatori di ogni tempo. E, forse, il più spietato.
Scrive di lui J. L. Borges : “…ho sconfitto il greco e l’egiziano / ho devastato con i miei duri tartari /le infaticabili leghe della Russia./ Ho eretto piramidi di teschi…”
In questa, terribile, ferocia, Borges vedeva, tuttavia, grandezza. Titanica. Mostruosa agli occhi degli uomini. Eppure grandezza.
Nella Guerra di oggi possiamo solo trovare la finzione. L’ipocrisia. Il mascherare la realtà con un linguaggio anodino e impersonale.
Però, se Tamerlano tornasse in vita, vedendo quello che accade oggi, probabilmente proverebbe… orrore .