Forse, come cantava Giorgio Gaber in “Io Se Fossi Dio”, quel Dio si è ritirato in campagna, nauseato dalla comitiva porporale e tonacale dei suoi queruli delegati, che lo nominano spesso invano e sempre a sproposito e con sfumature da eresia.
Non può essere altrimenti, se no una qualche vendetta da parte del Dio degli Eserciti sarebbe già scattata contro i suoi infidi scudieri, uno dei quali è tale don Di Piazza di Gorizia.
Questo esilarante agente del clero locale, in serrate schiere contro il potere politico e il governo elettoralmente espresso, sarebbe già stato fulminato da un dardo divino e non sarebbe arrivato alla fine della sua alienata elucubrazione giornalistica.
Ecco che allora diventa necessario fare alcune precisazioni, e da parte di chi in alternativa a Giuliano l’Apostata e a Celso potrebbe condividere solo le posizioni di Isabella di Spagna o di Carlo Martello.
Innanzitutto, nello sproloquio clerical-sinistro, è semplicemente vergognoso – voglio essere ancora più chiaro: è una infamità – che il prete sopra citato paragoni l’accoglienza dovuta, e per altro osteggiata dai suoi compagni comunisti, dei profughi istriani e dalmati con l’invasione allogena in atto.
Ritorna come un mantra questa similitudine, sovvertendo ogni criterio di differenza e falsificando numeri, qualità e storia.
Poi, sempre nell’operazione di manipolazione concettuale, il tragicamente spassoso pastore di clandestini e non di anime, parla di apertura culturale e mentale della Gorizia mitteleuropea, dimenticando – o volutamente distorcendo – che la Mitteleuropa era una condizione imperiale bianca e cristiana con l’accettazione delle singole confessionalità, e non un meticciato musulmano o multirazziale.
Continua sconfinando nella valutazione politica collegando lo spauracchio degli immigrati in funzione elettorale.
Evidentemente non ha ben chiara una percezione: il popolo è stufo della demagogia buonista, in stretto contatto con la speculazione commerciale della sedicente immigrazione. Il popolo ha le palle frantumate di fare sacrifici per gli estranei, mentre i propri vicini arrancano in una precarietà disarmante.
Il popolo sovrano vuole essere padrone in casa propria e non ostaggio delle operazioni di sostituzione etnica poste in essere dal capitalismo piratesco.
Infine, il massimo: “La terra è di tutti o di nessuno”, recita il medesimo in alternativa alle letture dello spirito. Bene. Allora io, da empio, devo ricordargli che Leone I, detto Magno, nel 452 sul Mincio, presso Mantova, non ha accolto in fratellanza i barbari, ma con unione tra potere religioso e potere politico, data dalla presenza del console e del prefetto di Roma, ha impedito l’accesso ad Attila, il re degli Unni.
Il prode Papa ha pensato bene di difendere i confini e la fede, altroché litanie di solidarietà e di accoglienza.
Passi a vedere lo splendore di Raffaello nella Stanza di Eliodoro ai Musei Vaticani che esalta il gesto papale. E soprattutto faccia un salto al monumento funebre di Leone I dove troverà una precisa iscrizione del Vangelo di Matteo: “Le porte degli inferi non prevarranno contro la mia Chiesa”.
Si insedi comunque al più presto la Santa Inquisizione: vedremo finalmente la fine dei portinai degli inferi e dei maggiordomi del maligno.