In una società non democratica, quindi non egualitaria, uno dei motori del miglioramento personale e sociale, sia in termini materiali che in quelli spirituali, è l’emulazione. La Treccani intende questa predisposizione come il “desiderio e ricerca di imitare, eguagliare o superare altri in qualche cosa”. Una virtù, insomma, che favorisce il successo personale e dà lustro anche al contesto di appartenenza.
Oggi si assiste, invece, alla prevaricazione dell’invidia, che nelle relazioni interpersonali si manifesta con la malevolenza, con il sordo livore nei confronti del benessere altrui, con la maligna predisposizione a danneggiare il prossimo preso di mira.
È l’Uriah Heep del David Copperfield di Dickens, personificazione del risentimento più feroce e, contemporaneamente, più masochistico.
In politica, l’invidia, e il risentimento suo irrinunciabile corollario, è rappresentata dall’antifascismo.
Dal 1946 in poi, nessuno dei più grandi protagonisti della politica di sinistra – parlo di Togliatti, Amendola, Paietta, Ingrao Nilde Iotti e via via elencando – si era mai sognato di interferire con iniziative iconoclastiche sui ricordi del passato regime. Fascisti veri e antifascisti veri, da avversari ma non nemici, contribuirono in continuità collaborativa alla rinascita dell’Italia e alla sua grandezza. Loro la storia l’avevano fatta, e nessuno aveva nulla da recriminare sulla realtà esistente, se non il reciproco impegno a migliorarla. Se solo pensiamo all’appello di Togliatti del 1936, il famoso appello ai Fratelli in camicia nera, contro il comune nemico rappresentato dal capitalismo internazionale e parassita che ammorba la Nazione, con il quale si invitava a “prendere il manganello contro i capitalisti che ci hanno divisi, perché ci restituiscano quanto ci hanno tolto […]”, ogni commento sull’attualità sarebbe già superficiale.
Figure scialbe e mediocri, relegate ai margini della cronaca – rosa, giudiziaria o hard poco importa –, dimostrazioni fattuali di incapacità progettuale e di impotenza intellettuale, rappresentanti di quel risentimento che Nietzsche condanna implacabilmente nell’ambito della morale degli schiavi, sono presenti nella scena politica corrente.
Senza curriculum, senza retaggio e senza gloria, i sinistri antifascisti sono i sostenitori del parassitismo finanziario e dello strozzinaggio capitalistico, e arrivano a rinnegare la Nazione addirittura invocando una rinuncia alla sovranità.
Tra mediocrità, servilismo e impotenza, nella complessiva incapacità a costruire, si applicano alla vendetta risentita togliendo cittadinanze a Mussolini, scalpellando lapidi e invocando abbattimento di colonne e cippi.
Tarlati nell’anima, per dirla con il filosofo e teologo Tascio Cecilio Cipriano, non potendo competere con il passato lo vogliono rancorosamente annientare, dimostrando – alla fine – solo l’indicibile consapevolezza della propria nullità. Questa gioia iconoclastica maligna ha, per altro, una ambivalenza ben evidenziata dalla psicoanalisi: noi odiamo e distruggiamo ciò che amiamo, ma non possiamo avere.
A questo punto non resta che osservarli con nobile distanza: mentre si autoseppelliscono sotto le rovine da se stessi procurate, noi in mezzo a quelle rovine stiamo ben saldi in piedi.