Lo avevano previsto, annunciato, ribadito: ci sarà un attentato all’aeroporto di Kabul. Ed immancabile, l’attentato è arrivato. Una strage, compiuta dall’Isis. Non un bombardamento talebano, ma un attacco suicida della versione afghana dello Stato Islamico. Non è che ci volesse una grande strategia per realizzarlo. Da giorni intorno all’aeroporto stazionava una folla impossibile da controllare. Una folla in mezzo alla quale era facilissimo infiltrarsi per poi farsi esplodere. Colpendo anche i soldati americani.
In fondo ai talebani poteva anche andar bene. È vero che lo scontro con l’Isis è a tratti feroce, però agli studenti coranici non piace neppure la folla di chi vorrebbe abbandonare il Paese. Ed ancor meno gli americani che favoriscono l’esodo. I talebani si lamentano perché a fuggire sono professionisti, medici, ingegneri. Le professionalità indispensabili per far ripartire l’Afghanistan dopo i disastri provocati da 20 anni di potere americano basato esclusivamente sulla corruzione.
Non proprio una novità per Washington. Lo stesso stile utilizzato in Vietnam e la conclusione, ovviamente, è stata la stessa. In fondo il rimbambito che guida gli Usa lo ha ammesso: non siamo andati in Afghanistan per costruire una nazione. Solo per costruire una classe dirigente corrotta, che si è squagliata come neve al sole. American way of life. Esportatori di democrazia, si definiscono. Ma per loro la democrazia è basata sulla corruzione. Che in Afghanistan è costata un quarto del Pil del Paese asiatico. Con qualche osso gettato ai sostenitori: la possibilità di ballare ascoltando musica americana. Mentre i signori dell’oppio aumentavano le coltivazioni ed i guadagni.
Un modello americano utilizzato non per costruire una nazione ma solo per gestire una città, Kabul, e poche altre aree urbanizzate. Mentre i talebani puntavano sulle campagne, sui villaggi montani. Dove la musica dei rapper americani non suscita grandi entusiasmi.