Si chiama “The Great Pacific Garbage patch“, ed è un immenso agglomerato di spazzatura nel mezzo dell’Oceano Pacifico. Purtroppo non è l’unico, ma viene citato spesso perché il più consistente: grande più di 1.6 milioni di km quadrati, praticamente l’equivalente di 3 nazioni europee messe insieme
Questa “isola” si è formata nel corso degli anni a causa delle correnti oceaniche, ed è costituita dal 99% da plastica, ed oltre il 94% sono microplastiche, più facilmente ingeribili dai pesci rischiando quindi di entrare nella catena alimentare.
Il 46% dell’intera massa di rifiuti è costituito da reti da pesca, tutto il resto sono invasi, cestini, bottiglie (ne sono state trovate alcune degli anni ’70) provenienti da ogni parte del mondo. Un’altra statistica stima che il 20% dei rifiuti provenga dallo tsunami giapponese del 2011.
Ma andiamo nel dettaglio.
Quali sono state le cause che hanno portato ad una situazione simile, oltre ovviamente alla responsabilità dell’uomo?
L’accumulo si è formato a partire dagli anni ’50, a causa dell’azione della corrente oceanica chiamata Vortice subtropicale del Nord Pacifico, dotata di un particolare movimento a spirale in senso orario. Il centro di tale vortice è una regione relativamente stazionaria dell’Oceano Pacifico, che permette ai rifiuti galleggianti di aggregarsi fra di loro formando una nube di spazzatura presente nella superficie oceanica.
Ma parliamo di statistiche: secondo le ricerche l’80% circa dei rifiuti umani che si trovano in mare arrivano dalla terra ferma, trasportati dai venti e dalle piogge. Solo un modesto 20% viene gettato o abbandonato direttamente in acqua. E un pezzo di plastica, una volta che raggiunge il mare, può vagare indisturbato per secoli.
Cosa succede al materiale plastico nell’acqua?
I materiali plastici non si biodegradano come le altre sostanze di natura organica, ma si fotodegradano, dividendosi in parti sempre più piccole. Questa situazione non solo inquina, ma fa sì che i rifiuti galleggino ed imbriglino detriti di ogni tipo. Gli animali confondono il rifiuto con il cibo, in quanto molto simile al plancton. Così facendo, molti animali marini muoiono per aver ingerito plastica. Ma non solo: molti insetti e creature marine stanno deponendo le uova sul materiale plastico anziché sui detriti naturali che normalmente galleggiano sulla superficie.
Un autorevole ente scientifico inglese, che ha pubblicato un rapporto sulle principali minacce per gli oceani, ipotizza che nei prossimi sette anni la quantità di plastica degli oceani potrebbe aumentare, passando da 5,5 trilioni di rifiuti a più di 16, minacciando la biodiversità marina, in particolar modo quella dei vertebrati: queste specie si sono ridotte già del 49% negli ultimi 40 anni.
In un periodo storico abbastanza confuso, sono state pensate diverse soluzioni per risolvere il problema inquinamento: un’isola abitabile sfruttando i rifiuti di plastica dell’architetto Ramon Knoester; un sistema di piattaforme dotate di depuratori e stoccaggio per i rifiuti progettato da Ejiuson Ueda, chiamato Eco Robot Mobile, e infine imbarcazioni di raccolta negli oceani.. questi sono solo alcuni esempi di soluzioni studiate dall’uomo per correre ai ripari nei confronti di un’emergenza che non può più essere ignorata.
Saremo in grado di azzerare questo conto alla rovescia sempre più preoccupante?