Scrive Rumï che la verità è uno specchio caduto dal cielo. E andato in una infinità di pezzi. Ogni uomo possiede uno di quel cristallo. Vi si specchia. E crede che ciò che vede sia la verità…
Non credo che Luigi Pirandello conoscesse le opere di colui che, in Turchia, a Konya dove è sepolto, venerano col nome di Maulānā. E in ricordo del quale i, famosi, dervisci rotanti eseguono le loro, apparentemente folli, danze estatiche. Certo, il drammaturgo/filosofo di Girgenti sapeva della cultura orientale molto più di quanto, comunemente, si creda. L’aveva incontrata negli anni di Bonn, attraverso i teosofi tedeschi. E ne era stato profondamente segnato.
Ma Gial -al-Din Rumī era ben poco noto e tradotto allora.
Comunque, sarebbe stato pienamente d’accordo con questa affermazione del più grande poeta turco/persiano. Sembra, a tutti gli effetti, una versione della Teoria del lanternino del professore Anselmo Paleari.
Rumī, ovvero il figlio del Romano. Perché turchi e persiani chiamavano così, terra di Rum, la penisola anatolica. Che era Impero di Bisanzio. E , quindi, dei Romani. Ma lui era nato molto lontano. In Afghanistan, forse. O in Tagikistan. Ma i suoi genitori avevano origini persiane. O, comunque, parlavano persiano. La lingua colta, e letteraria, di tutto quel complesso mondo che si estendeva dai confini dell’India alle spiagge del Mediterraneo Orientale.
Discepolo, strettissimo, di Shams el- Tabriz, il folle di Dio, ebbe anche la fortuna di studiare con Muheddin ibn Arabi, il più grande pensatore sufi di ogni tempo. Fondendo, nella sua opera poetica, la profondità gnoseologica di questi con l’ardore spirituale del Maestro di Tabriz. Un’opera poetica che, nel suo complesso, trova innumerevoli consonanza con quella del nostro Dante. D’altro canto i due erano divisi solo da pochi decenni. E il Mediterraneo, che si estende dalle coste turche a quelle italiche, non è mai stato una barriera di separazione. All’opposto, una via di comunicazione culturale, oltre che commerciale e geopolitica.
Per Rumī la realtà terrena, quella che vediamo, pensiamo, misuriamo, non è che il riflesso della vera realtà. Che si esprime attraverso i simboli. Ovvero le “porte” che ci possono condurre ad un livello di coscienza superiore.
Tutto l’universo, ogni cosa, ogni oggetto può essere un simbolo. Basta saperlo “leggere”. Che non è, però, operazione intellettualistica, bensì… mistica. La capacità di vedere, oltre le parvenze. Di andare… oltre.
Di qui l’intuizione poetica dello specchio infranto. Ognuno di noi si riflette nel frammento di cristallo che possiede. E quello crede essere la verità. Unica e sola. Il problema delle incomprensioni, della incomunicabilità sta tutto in questo. Rumī risponde, secoli prima, alle ubbie degli esistenzialisti. E ai dilemmi, irrisolti, dei moderni sociologi.
Per questo l’uomo è solo. Perché è incapace di andare oltre quel frammento di specchio che gli rimanda, deformata, sempre e solo la sua immagine.
Non è la fantasia, o l’astrazione, di un poeta mistico. È qualcosa che, pur in modo inavvertito, sperimentiamo costantemente. Vediamo solo noi stessi. E in modo parziale. La nostra verità, ciò che per noi sembra importante. Fondamentale. Di qui l’incapacità di comprendere le ragioni degli altri. La sostanziale solitudine in cui, da soli, ci rinchiudiamo.
Rumī, a differenza di sociologi e psicologi moderni capaci esclusivamente di analisi sterili, offre, però, una risposta. Sottintende una soluzione.
Sfuggire all’illusione. Tentare di risalire al luogo ove lo specchio era uno. Non infranto ancora.
Difficile. Forse impossibile per l’uomo odierno.
O forse solo… poesia. Come quella di Dante. Che nel XXXIII del Paradiso, contempla il mistero trinitario. E vi vede l’immagine dell’Uomo.