Bentornato Stato sociale.
L’entusiasmo di Luigi Di Maio non era rivolto all’omonimo gruppo musicale, ma ai provvedimenti del governo giallo verde a favore di disoccupati e anziani.
Provvedimenti indubbiamente insufficienti, ma da qualche parte bisognava pur cominciare. Però, una volta garantita la sopravvivenza dei più deboli (sperando che sia rigorosissimo il contrasto ai cialtroni che ne approfitteranno), il governo dovrà decidersi a guardare oltre. Alla crescita.
E allora potrebbe essere utile una lettura del nuovo libro di Francesco Carlesi, “La terza via italiana”, pubblicato da Castelvecchi. Perché può anche essere che Di Maio e Di Battista siano stati positivamente condizionati dai rispettivi padri – al di là di episodi di lavoro nero – ma in ogni caso un ripasso di come sia possibile individuare un’alternativa al pernicioso turbo capitalismo non farebbe male.
Forse il titolo non ha più senso se proiettato nel futuro, poiché la terza via era quella al di fuori di capitalismo e socialcomunismo. Ma ora che il secondo è uscito di scena, serve una vera alternativa agli oligarchi, agli sfruttatori, agli speculatori. D’altronde il risultato di questo potere unico non è per nulla entusiasmante: un gruppo sempre più ristretto di super ricchi e una platea sempre più vasta di poveri, compresi quelli che pensano di essere ancora agiati solo perché si sono rassegnati ad una sensibile riduzione di spesa.
Carlesi, nel suo libro, ricorda l’esperienza corporativa che riusciva a rappresentare, con decenni di anticipo, quelli che ora vengono esaltati come accordi di filiera. Ricorda il coraggio e la lungimiranza di Enrico Mattei e di Adriano Olivetti, ricorda la geniale creazione dell’Iri ed i brillanti risultati ottenuti per la ripresa italiana dopo la crisi del ‘29. Un gioiello rovinato da politici incompetenti e distrutto da imprenditori rapaci ed incapaci.
Sull’inadeguatezza della classe dirigente di questo Paese è tornato di recente Marco Cantamessa, docente del Politecnico di Torino, in una intervista sullo Spiffero. In teoria le critiche sono rivolte ai mediocri capitani d’industria subalpini, più caporali che capitani. Ma l’analisi può essere estesa a tutta Italia, con le debite eccezioni dal Piemonte alla Sicilia. Evidentemente si tratta di una costante, considerando che l’Iri nasce proprio come risposta all’inadeguatezza di un ceto imprenditoriale e finanziario che avrebbe voluto soldi pubblici per salvare aziende private ma lasciandole in mano a chi aveva dimostrato di non saperle gestire.
Invece lo Stato diventa imprenditore e risana le aziende, le rilancia, le fa crescere. E nel dopoguerra si prosegue nello sviluppo grazie a politici competenti come Fanfani. Prima che il clientelismo e la rapina distruggano tutto. Ora i prenditori vorrebbero nuovi investimenti pubblici per far crescere aziende private pessimamente gestite. Senza nemmeno dover assumere i lavoratori a tempo indeterminato.
Di Maio dovrebbe dedicarsi alla lettura. Per comprendere che l’alternativa esiste e va un po’ oltre al reddito di cittadinanza.