In questo lungo periodo di segregazione domestica e di rastrellamenti sanitari, molti postano sui siti di relazioni sociali – social network che lo usino gli analfabeti per darsi un tono – foto di città deserte e desolate.
Questa condizione, aggravata dalla propaganda terroristica del contagio, si è soltanto acuita, iniziando la sua infiltrante operazione molti decenni fa, adattandosi all’architettura funzionalistica senza storia e senza anima della cultura nord-americana.
Quella organizzazione logistica, infatti, non prevede piazze e altri luoghi di incontro, perché le città sono strutturate per contenere uffici pubblici e luoghi di affari: si attivano durante gli orari di lavoro, e poi si svuotano e fanno migrare le persone verso le periferie, ridotte a dormitori suburbani.

Le città europee erano già nella loro costruzione definite in spazi di vicinanza sociale – osterie, bar, trattorie, luoghi di aggregazione vari – senza divisioni per età o per censo, se non per ristrette categorie e interessi particolari. Tutti si amalgamavano davanti a un bicchiere o a un piatto locale, discutendo, bestemmiando, giocando la famosa “schedina”, magari dedicandosi al pettegolezzo o alla sputtanata degli assenti. Ma comunque la si veda, c’era una consuetudine alla socialità e al confronto e, soprattutto, senza fini di lucro.
Poi, con metodo e strategia, sono stati impiantati anche da noi i centri commerciali – gli shopping malls della mentalità americana – con la loro virtuale copia della piazza: giardini interni, negozi attorno, spazi di ristoro, centri benessere e altre opzioni di finto incontro, con due prerogative che il sociologo Ray Oldenburg sintetizza in un giudizio e in un manifesto riportato: il giudizio è che nei centri commerciali confluisce “un amalgama fluttuante di comparse generiche”, e il manifesto riportato appare in uno di questi centri: “Dà il benvenuto a chi vuole comperare, non a chi ha tempo da perdere”.

Queste due osservazioni portano a tre considerazioni.
Innanzitutto, la totale dispersione delle relazioni interpersonali date dalla conoscenza reciproca che si instaurava nell’abitudinaria frequentazione delle botteghe e delle bettole di quartiere, con danno economico dei piccoli imprenditori e deterioramento psicologico e sociale dei rapporti comunitari.
Poi, una vera e propria scomunica del tempo libero, dell’ozio, del riposo, in una realtà artificialmente costruita sull’efficientismo e il prestazionismo, penalizzando di conseguenza tanto i giovani – resi incapaci di apprezzare la fisicità dell’incontro e il gusto stesso della consumazione – ridotti nella chiusura dei mezzi tecnologici e nell’incontro alcolico da sballo, senza contaminazioni generazionali, che i vecchi – inutili residuati di un tempo irriconoscibile, quando non dannosi fardelli di un sistema di protezione in fallimentare discesa.
In ultimo, la cinica devastazione attuata dal liberal-capitalismo consumistico che con l’invenzione dei centri commerciali ha definitivamente liquidato ogni forma di socialità riducendo tutti o a merce attiva da utilizzare o a merce scaduta da rottamare.
La sinistra si è svenduta alle lobby della globalizzazione. Quindi spetta a noi la riconquista dei territori della comunità abbandonati dal sistema e dai suoi apparati.
Facciamo nostro l’avvertimento di Adam Smith, il teorico del liberalismo, riportato da Christopher Lasch: “Un uomo incapace tanto di difendersi quanto di vendicarsi, evidentemente, manca della parte più essenziale del carattere di un uomo”.