Ci vuole una donna minuta che, con lo sguardo spiritato e infilata in una giacca di due taglie più grandi, appare in scena come una bambina finita in un gioco molto più grande di lei, per rappresentare i personaggi di questo dramma: “Il Ritorno”, che Irene Muscarà ha interpretato, tradotto e liberamente adattato dal romanzo “Tutto scorre…” di Vasilij Grossman. Appena andato in scena, purtroppo per un’unica rappresentazione, al Teatro Argot di Roma. L’attrice, da sola, veste i panni di uno dei milioni di russi che furono deportati nei Gulag e dei quali c’è chi, come il protagonista Ivan, torna in seguito alla grazia concessa per la morte di Stalin e riesce a ricostruirsi uno straccio di vita, cioè un lavoro da fabbro e un permesso di residenza. Altri invece, come Masha, soccombono all’orso comunista e stalinista e non faranno più ritorno.
In mezzo alcuni coprotagonisti, delatori e opportunisti che per viltà o convenienza assecondano lo spietato regime di spionaggio e repressione che per decenni, dopo la Seconda guerra mondiale, gela e insanguina l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, nel silenzio sostanziale di gran parte del mondo. Un’omertà che ancora oggi si protrae: da un lato, si è prodotta l’indecente guerra dell’orrore e il primato della Shoah nel Novecento rischia di oscurare genocidi e dittature che hanno avuto milioni di vittime; dall’altro, un filo di imbarazzo evidente induce a evitare di affrontare un tema che potrebbe, per immediata adiacenza, sollevare quello delle complicità occidentali, a partire dai partiti comunisti che tacquero su queste abiezioni. Siamo sempre alla “banalità del male” di Hannah Arendt, a riflettere su quanto sia facile girarsi dall’altra parte se il male più o meno assoluto viene commesso davanti a noi. O magari e forse peggio, come uno dei personaggi del racconto teatrale, fermarci a stringere la mano della “vedova bianca” di un prigioniero politico, così da sentirci in pace con la nostra indulgente coscienza.
Oggi il clima è più disincantato e consentirebbe di guardare ad alcune parti della nostra storia novecentesca con più lucidità e rigore, ma altre pruderie inducono a lasciare perdere. Intanto, il generale smarrimento della memoria riduce anche fatti così eclatanti a un passato sepolto; e poi gli agganci con la geopolitica odierna complicano terribilmente il giudizio e la narrazione su ciò che può generarsi, ogni volta che scoppia una guerra e che l’essere umano nostro vicino di casa, o addirittura coinquilino, diviene nemico.
Complimenti quindi a chi come Irene Muscarà ha il coraggio e la voglia di raccontare storie in apparenza fuori moda e invece drammaticamente attuali. Testo e pièce avrebbero nella loro brevità, appena 60 minuti di monologo, diritto di essere più rappresentati, soprattutto a livello didattico e pedagogico.