“Certe cose, certe pagine di alcuni scrittori, non le puoi capire davvero se non vivi in quelle terre. Se non respiri quell’aria. Quei profumi… Se non assapori quei cibi…”. Una mia Amica, siciliana… Sta parlando di Verga. Che era della sua terra. E che lei ama profondamente. Come i suoi luoghi.
Il discorso è partito per caso. Dalla morte di Battiato. E dalla sua musica. Così particolare. Unica. Eppure, radicata profondamente nei suoi luoghi d’origine. Come l’accento che non ha mai perduto.
Ha ragione. Io ho fatto molta fatica a comprendere Verga. Ad apprezzarlo davvero. Anzi, da liceale, lo detestavo. Forse anche perché ti toccava di leggere i Malavoglia capitolo per capitolo. E farne il riassunto. Con il prof che interrogava. Pignolo…
“E che carico porta Bastianazzu sulla Provvidenza” domanda micidiale. Ricordo che Livio, mio compagno di banco, biascicò a stento “Di lupini…”
Il professore – che chiamavamo Ciglione perché ipertricotico e sempre corrucciato- lo incalzò. Spietato. “E cosa sono i lupini?”
Lo sguardo di Livio divenne disperato. Un, lungo, intervallo di silenzio, mentre Ciglione trmburellava sulla cattedra con la penna. Poi “Un carico di cuccioli di lupo!” e noi, i maschi dell’ultima fila, gettammo le teste all’indietro. Ululando all’unisono. Finimmo tutti in Presidenza…
Comunque, Verga l’ho poi riscoperto nel tempo. Ed è, oggettivamente, un grande. Ma neppure oggi mi risuona davvero. Forse perché non ho la luce delle zagare negli occhi. E il canto dello Scirocco nelle orecchie…
Altri sono i colori, i profumi che riconosco nelle pagine di un libro. Nelle parole di un autore, romanziere o poeta che sia.
Venezia. Certo. Sedermi al Florian, per un caffè. Che costava, già allora, un botto. Perché erano gli anni in cui lavoravo alla tesi, e andavo a fare ricerche in Marciana. Trascorrendo ore in quel vasto stanzone in penombra. Silenzioso. Se non per qualche bisbiglio. A compulsare vecchi libri polverosi, che nessuno richiedeva più da decenni. E poi, uscendo alla luce di San Marco, il caffè. E, talvolta, la musica. Un piacere ineffabile. Capivo la leggerezza di Goldoni. Le ironie pettegole di don Marzio. Il sorriso della Vedova Scaltra dietro a un ventaglio. La saggezza popolare di Pantalone…
Roma. Quando, sempre universitario, vi venivo per trascorrere giorni, settimane tra gli scaffali del Germanico, a ridosso di Via Veneto.
La sera passeggiavo per il centro. E andavo a cena in un buchetto di Via Merulana. Una di quelle trattorie che erano, probabilmente, vecchi scantinati. La cucina a vista, una corpulenta vecchia che spignattava. Pochi tavoli , tovaglie di carta, un solo cameriere. Piatti casalinghi. Non da turisti. Era la Roma popolare raccontata dal giovane Moravia. E soprattutto da Gadda. Nel Pasticciaccio. E per capire quello strano “giallo” che resta sospeso, e che è in realtà solo il pretesto per indagare sui tormenti della mente umana, devi essere stato lì. Annusato quell’aria. Mangiato una pera cotta nel vino, un piatto di rigatoni alla norcina. Visto quel mondo di impiegati, studenti, domestiche… che brulicava di vita. E sentiti quegli accenti. Quei modi di dire. Quelle battute a tratti stanche, altre volte ironicamente allegre…
E, poi, soprattutto Trieste. Che è stata la mia Alma Mater. La Trieste dei palazzi asburgici. Dei caffè animati da discussioni vivaci. Delle gelaterie sul Viale. Dei moli. Del mare e del Carso.
Quando leggo Svevo ne riconosco le vie. E mi sembra di rivedere i colori. Di sentire quei profumi contrastanti. Di salso e di altopiano.
E nella Vecchia Cavana, ho compreso la lirica di Saba. Che lì trascorse, praticamente, tutta la sua vita. Tra le mura di una botteguccia da libraio antiquario…
Scorro, distrattamente, alcune novelle. Pirandello. Il primo Pirandello, quello di “Scialle nero”. Ancora legato al Verismo, dicono i critici. Che ha ancora nelle nari il profumo degli agrumi. Nel palato il sapore dei cannoli di ricotta. Negli occhi la luce dei limoni al sole…Lo spiego da una vita… Ma.. Dovrei andare in Sicilia per capirlo davvero…