L’Uomo di Mosca di Alberto Cassani (Baldini+Castoldi, 2018, €18) è un libro comunista, scritto da un comunista, con personaggi comunisti, probabilmente rivolto a un pubblico di comunisti.
Tuttavia è un romanzo sincero, schietto e pure ben scritto, che riporta il lettore a periodi della nostra storia che sembrano lontani secoli. Eppure gli anni Settanta e Ottanta, a ben vedere, non sono poi così lontani.
La vicenda si svolge ai giorni nostri, e narra di un avvocato di Ravenna che si ritrova, quasi suo malgrado, a ripercorrere la vita del nonno sui sentieri dei finanziamenti del Partito Comunista Sovietico al PCI italiano. Nella ricerca di indizi sulla sparizione di un’ingente somma, e di documenti molto compromettenti, Andrea Cecconi si trova coinvolto in una spy story che sembra uscita dalla mente di John Le Carre.
Tuttavia è nelle considerazioni che fanno da contorno alla vicenda che si trovano le cose più interessanti del libro. Una serie di analisi sulla politica attuale piene di nostalgia per i tempi in cui la militanza veniva prima di ogni altra cosa, unite alla consapevolezza che, nel mondo dei partiti, i furbi e gli approfittatori ci sono sempre stati, ma che un tempo , forse, erano meno di oggi; e forse, proprio per questo, all’epoca erano più propensi all’intrallazzo di quanto non succeda ai giorni nostri. Oggi è più difficile perché c’è troppa concorrenza.
È sufficiente citare quanto dice uno dei personaggi – anch’egli comunista, naturalmente – in merito alla crisi attuale della Sinistra: “ Noi perdiamo ogni giorno di più il nostro retroterra: l’antifascismo è un residuato bellico, i sindacati boccheggiano, la cooperazione non coopera, le associazioni tradizionalmente più vicine si sono allontanate. […] O ridiamo senso alla sinistra come forza che contrasta le disuguaglianze e non si lascia usare dai poteri forti, oppure, se continueremo a essere subalterni ai diktat della finanza, come lo siamo stati nel gestire questi anni di crisi economica, il popolo ci spazzerà via in men che non si dica!”
Detto ciò va ricordato come la storia narrata sia appassionante e risponda a tutti i criteri necessari al racconto spionistico. Anche se ci sono troppe digressioni, la storia fila via veloce e può essere seguita anche senza dare troppo peso alle elucubrazioni mentali del protagonista.
Ma si sa: perché un libro superi le trecento pagine, tanto da renderlo appetibile per la casa editrice, qualcosa bisogna pur scriverlo.
Chiudiamo con una notazione singolare: il volume si chiude in modo molto simile a quello di Walter Jeder (Il Diavolo e la Coda) di cui si parlava qualche settimana fa. In entrambi i romanzi gli autori dichiarano di essere stati chiamati dai loro rispettivi nonni a mettere per scritto le vicende che sono state loro raccontate. Entrambi dicono, più o meno: “Caro nipote, io ti ho raccontato la mia storia. Ma tu la devi scrivere perché ne sei capace e io no”.
Sorprendente, no?