“Je vous ai compris”. La celebre frase pronunciata da Charles De Gaulle nel 1958 ad Algeri non ha portato fortuna ai francesi d’allerta che si erano illusi di essere stati compresi e non soltanto ascoltati. Ma Emmanuel Macron replica il discorso del generale ed ancor di più quello di Vittorio Emanuele II: “Non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi”.
Anche l’attuale inquilino dell’Eliseo assicura di non poter essere sordo di fronte al grido delle piazze francesi: “È stata espressa rabbia, rabbia per un lavoro che, per troppi francesi, non permette più di vivere bene, per l’aumento dei prezzi, per la benzina, la spesa, le mense. Rabbia perché alcuni hanno la sensazione di fare la loro parte, ma senza essere ricompensati per i loro sforzi, né in aiuti né in servizi pubblici efficaci, nessuno, e soprattutto non io, può rimanere sordo a questa richiesta di giustizia sociale e di rinnovamento della nostra vita democratica”.
Chapeau! Oppure no? Perché la rabbia si è scaricata su una riforma delle pensioni che è stata approvata ed avviata proprio da Macron. Mentre per la giustizia sociale, per un nuovo modello di sviluppo e di lavoro si penserà, con calma, ad un tavolo per avviare un confronto che porterà ad una analisi per individuare una riforma che…. bla bla bla. Certo, i tempi francesi sono infinitamente più brevi rispetto a quelli della politica e della burocrazia italiana. Però sono comunque lunghi, eccessivamente lunghi.
E la piazza transalpina ha rispolverato il “cacerolazo” latinoamericano, la protesta con le pentole per far rumore. E finché la rabbia si trasforma in un rumore infernale, per Macron ed il suo governo va più che bene. Anche se non tutte le proteste in America Latina sono finite nel migliore dei modi per i rappresentanti del potere.
Però, al di là della riforma delle pensioni e della rabbia legata a questo provvedimento, il presidente francese ha perfettamente ragione quando ricorda la necessità di un intervento che tenga conto del cambiamento radicale del lavoro, delle condizioni dei lavoratori, del rifiuto sempre più generale di un modello di lavoro che crea solo tensioni, non è retribuito adeguatamente, non coinvolge i dipendenti e, inevitabilmente, non porta ai risultati sperati né in termini di qualità e nemmeno di quantità.
Non solo nell’Esagono, ovviamente. L’Italia si lamenta ormai da decenni della perdita di competitività – anche rispetto ai francesi – ma l’organizzazione del lavoro non viene modificata. E gli investimenti latitano. Frustrazione, insoddisfazione, mancanza di prospettive di crescita professionale, mansioni scollegate rispetto agli studi ed alle professionalità degli addetti, incompetenza di dirigenti che hanno fatto carriera in maniera per nulla trasparente.
Ed allora ben venga, anche in Italia, una discussione vera sul lavoro, sulla sua organizzazione, sulle professionalità, sulle retribuzioni, sul costo della vita. Purché sia una cosa seria. Dunque con l’astensione di ministri per merito di parentela acquisita, di ministri imbarazzanti secondo cui i giovani (e non solo i giovani) possono lavorare per 400 euro al mese mentre i parlamentari fanno fatica ad arrivare a fine mese con 15.000, di conduttori strapagati che predicano la rassegnazione alla povertà. Una discussione senza sindacalisti attenti ai festeggiamenti per il 25 aprile e non ai morti sul lavoro (l’Ugl ha organizzato un tour per discutere di sicurezza, ma al governo preferiscono non capire); senza gli amministratori locali che propongono lavori non retribuiti; senza gli influencer che ritengono corretto pagare con un gelato mezza giornata di lavoro al bar.
Resta poca gente intorno al tavolo? Meglio. La zavorra va eliminata se si vuole volare.