21 Aprile. Natale di Roma. Un tempo, ormai lontano, facevo leggere ai miei studenti, veneti, il Carmen Saeculare di Orazio. Talvolta dividevo maschi e femmine in due cori – oggi susciterebbe orrore e disdoro nei sostenitori del neutro, della e rovesciata ə ( che poi si chiama schevà, da una radice ebraica che vorrebbe indicare ciò che è insignificante, l’assenza), delle boldrinate politicamente corrette… Ma allora lo facevo tranquillamente. E i due cori intonavano il Carmen, così come avevano fatto ai tempi del buon Augusto, per dirla con Dante, sui declivi del Palatino eccelso…

Ricordi antichi, ormai. Di ben altri tempi, e ben altri luoghi. Qui a Roma, in questa accozzaglia urbana caotica e priva di anima, oggi non usa. E neppure ci si ricorda che è il Giorno Natale della Città. Si pensa ad altro. O, più esattamente, non si pensa…
Io, però, ricordo. E ricordo, anche, che il Natale di Roma è, sotto un certo profilo, più antico di Roma stessa. Antecedente la sua fondazione. Il che potrebbe sembrare un assurdo. Ma non lo è.
Perché era l’arcaica, e per molti versi arcana, festa di Pales. Di cui parlano, fra gli altri, il Virgilio delle Georgiche, e Ovidio. Che nei Fasti la descrive con minuziosa precisione. Perché l’aveva vista ancora celebrare. Vi aveva partecipato.
Era una festa di pastori. E gli antenati latini questo erano. Pastori seminomadi, adusi ad una vita dura. E alle armi. Avevano conquistato un Impero. Ma non lo avevano scordato. E così il 21 Aprile celebravano, insieme a Roma, Pales. Accendevano fuochi, sacrificavano un vitello e un cavallo. Bevevano vino misto a latte. E danzavano saltando sopra le fiamme. Per purificarsi. E temprarsi.

Già… Ma chi era questa Pales? Il nome, come il culto, rimanda appunto alla pastorizia, veniva definita anche Pastoralia e Montana, per ricordare gli altı pascoli… Ed era una Dea. O, per lo meno, questa era l’opinione prevalente. Perché “Pales”, in latino, può essere tanto maschile, quanto femminile. Non neutro, quindi dimenticatevi la schevà ed altre boiate. Qui si parla di antichi Dei. E sono cose serie.
Comunque, poteva essere entrambi. Una coppia. Perché gli Dei avevano sempre un loro corrispettivo dell’altro sesso. Le due polarità della Natura. Su cui si fonda l’ordine cosmico.
Prevaleva, però, l’aspetto femminile. Perché Pales è una Dea Madre. Come Cerere, che era sacra agli agricoltori, quindi alla stirpe dei Sabini. Non per nulla veniva venerata in un tempio sull’Aventino. Mentre quello di Pales era sul Palatino. Il più latino dei Colli. Sacro all’aristocrazia guerriera che discendeva da pastori nomadi.
Pales era triforme. Aveva tre volti. Le tre età della vita. La generazione, la nascita. La crescita e la forza. Infine, la morte. Rappresentava il ciclo naturale cui devono sottostare tutti i viventi. Gli animali, come l’uomo. È un ciclo che non conosce sosta. Cui nessuno può sottrarsi. Chi nasce, prima o dopo, muore. Ma la morte non è la fine, solo il ritorno al punto di partenza. Da cui si tornerà. Rigenerati. La danza sopra il fuoco significava questo. Non per nulla Pales consona con “pallida”. Il volto della Luna. I suoi cicli, legati misteriosamente alla fertilità.
E la bevanda rituale, vino misto a latte, ci riporta da un lato all’ebrezza dionisiaca. Dall’altro al culto dei morti. Perché il latte era la libagione in onore dei defunti.

Questa sarà una notte di Luna crescente. Io sono intollerante al latte, ma ne verserò, comunque, una goccia nel bicchiere di vino. Rigorosamente rosso, come il sangue. Non salterò fra i fuochi, certo. I vicini potrebbero chiamare un TSO. Già mi guardano con sospetto, perché tendo troppo spesso a dimenticare la mascherina. Però verserò un goccio di vino e latte sulla terra. E, forse, poi sognerò le greggi che un tempo vi pascolavano. E gli Uomini, quello veri. Quelli che sono ancora gli unici, i soli abitanti di Roma. Gli altri – questa turba senza nerbo e, ormai, senza volto – che si muovono come automi per le vie, non sono nulla. O forse solo indesiderati ospiti.
Buon Natale di Roma.
Valete!