“Se questa è mafia” (€uro 18,00 p. 450) pubblicato da Editions Mincione, Roma è il memoriale di Salvatore Buzzi, curato dal giornalista professionista del “Il Tempo” Stefano Liburdi, in cui l’autore racconta la sua verità sul processo “Mafia Capitale, poi divenuto “Mondo di mezzo”.
Buzzi ricostruisce con meticolosità e pazienza certosina il suo iter giudiziario corredandolo di documenti, che provano la sua innocenza in merito al reato di mafia ma non di quello relativo alla corruzione di cui si assume ogni responsabilità, ammettendo anche il suo errore nel non aver insisto, dopo aver presentato un esposto quando gli fu richiesta la prima tangente, e denunciare il sistema corruttivo vigente anche prima di lui.

L’autore non lo fece per salvaguardare i dipendenti della cooperativa 29 marzo e i loro posti di lavoro. Il memoriale alterna, infatti, l’analisi dei documenti e i diversi momenti del confronto processuale, con riflessioni interiori sulle conseguenze ricadute addosso alla sua famiglia, sulle delusioni da parte di amici, svaniti nel momento del bisogno come foglie spazzate dal vento.
Soprattutto come il desiderio di riscatto che lui ex detenuto modello, recluso in precedenza per una condanna per omicidio, era riuscito a concretizzare con la cooperativa 29 marzo, dando lavoro e occasione di riabilitazione sociale a chi, come lui, era passato attraverso l’esperienza del carcere, fosse vanificato per l’azione coincidente dei suoi sbagli e di quelli di un processo a tesi costruito su intercettazioni non verificate – solo dopo strenui sforzi sono stati effettuati e accettati i riscontri – facendo così cadere l’imputazione di mafia e procedendo per i reati di corruzione, effettivamente posti in essere da lui.
Come ha messo in luce Liburdi nell’introduzione, il valore del libro non è solo per la vicenda in sé ma per la deriva pericolosa verso cui lo stato di diritto e l’informazione giornalistica stanno discendendo. In merito al primo, è inquietante che il processo di “Mafia Capitale” si sia fondato esclusivamente su intercettazioni telefoniche e ambientali prive di riscontri investigativi, e che il medesimo sia stato anticipato sugli schermi televisivi e sulle pagine dei giornali prima del suo approdo in aula.
Le stesse sentenze dei giudici che sancivano la colpevolezza degli imputati sono state emesse prima da romanzi, film, serie tv, articoli e libri che non solo s’ispiravano, ma erano addirittura la versione fedele delle trascrizioni provenienti da inchieste in corso, i cui atti dovrebbero essere segreti.

Riguardo al mondo dell’informazione, a parte lodevoli eccezioni, invece di verificare le notizie, leggendo le carte processuali, ci si è limitati a riportare l’accusa, non mettendo in luce controsensi e lacune, che un’analisi attenta e intellettualmente onesta, avrebbe messo immediatamente in evidenza. Al contrario, è stata scatenata una campagna di demonizzazione degli imputati, perché nell’immaginario collettivo si consolidasse la convinzione della loro colpevolezza, enfatizzandone le figure grazie anche all’estrapolazione strumentale di frasi utili allo scopo dalle intercettazioni, aumentando le difficoltà nell’accertamento della verità autentica. La demonizzazione mediatica, ha avuto come vittima anche il mondo della cooperazione sociale che è stato gravemente colpito, senza tenere minimamente conto della sua attività sociale positiva di recupero dei soggetti disagiati.