Da quando è apparso lui, il nome Diego ha significato una sola cosa: il numero dieci nel calcio.
Non che prima non si usasse o che nessun’altra stella avesse mai indossato quella maglietta, anzi! Basti il nome di Pelè per tutti. Anche se non si possono ignorare così facilmente giocatori come Schiaffino, Puskás, Eusebio, Rivera, Luis Suarez, Cruyff o Rivelino, per non parlare dei mitici Valentino Mazzola o Meazza. Ma da quel periodo la casacca “numero 10” divenne un simbolo, in campo e fuori: era il leader, il regista, colui attorno al quale ruotavano le fortune della squadra, della tifoseria, se non addirittura di città e paesi interi.
Fu proprio questo il caso di Maradona, quando approdò a Napoli nel 1984, ormai quasi maturo per l’epoca, con alle spalle vicende sportive di alterna fortuna nella natìa Buenos Aires, lato Argentinos Juniors, o a Barcellona, dove raccolse alcune coppe e titoli di capocannoniere del campionato, che gli diedero fama di grande goleador e giocatore di classe, insieme al Pallone d’oro sudamericano vinto per due anni consecutivi da ragazzino. Tanto per quello europeo non poté mai competere, mentre veniva assegnato ai suoi rivali numeri dieci del tempo: Platini, Gullit e Matthäus. Perché quelli divennero i suoi principali rivali, di maglia e in campo, nelle sette stagioni trascorse nel club partenopeo, a contendersi il campionato, la Coppa Italia e la classifica dei goleador contro la Juventus, il Milan e l’Inter.
Già da questi nomi si capisce l’arduità della sfida che il “pibe de oro” si apprestava ad affrontare: disputarsi i titoli professionistici nazionali con i più importanti e ricchi club del Nord, di proprietà di grandi uomini d’affari come l’Avvocato Agnelli e i Cavalieri Berlusconi e Pellegrini, mentre il suo Napoli era da moltissimi anni gestito da Ferlaino, un noto imprenditore locale che per l’occasione si avvalse di manager innovativi e vincenti come Allodi e Moggi. Iniziò così una sfida nella sfida, fra il Meridione povero e mediterraneo e il “triangolo industriale” benestante ed internazionale, intrisa di rivalse sociali, economiche e politiche. Anche se il Pentapartito cercò per un decennio di tenere tutti insieme: socialisti milanesi, democristiani meridionali e liberali/repubblicani torinesi.
Erano i “ruggenti Anni Ottanta”, quelli del pop e delle discoteche per tutti, delle droghe pesanti e dell’Aids dilaganti, dello yuppismo e del boom economico italico. Erano gli anni in cui la Nazionale tornava a vincere la Coppa del Mondo di calcio, con la sua stella “Pablito” e gli altri mitici eroi del gioco all’italiana, tutto catenaccio, tattica e contropiede.
Proprio ai Mondiali del 1982 emerse il talento di Dieguito, giovane fantasista della squadra campione in carica che, però, nell’incontro con gli Azzurri subì la prima cocente sconfitta, che fece capire che quell’anno il titolo sarebbe tornato in Europa e forse che l’Argentina era già in declino. Ma non fu così, anzi: proprio lui, Maradona, divenne il leader carismatico ed effettivo dei biancocelesti che nelle due successive edizioni giunsero fino alla finalissima, contro la onnipresente Germania, alternandosi alla vittoria.
Il destino arrise ai gauchos nel 1986 in Messico, proprio grazie a due prodezze di Diego: nell’eliminatoria con l’Inghilterra, uno slalom infinito da centrocampo fin dentro l’area inglese, palla al piede, mettendo a sedere tutti gli avversari incontrati, e poi “el golpe de la mano de Dios” con cui il piccolo attaccante argentino riuscì ad anticipare il portiere Shilton, senza che l’arbitro se ne accorgesse. In quel frangente, tutti compresero che in Maradona era radicata una “doppia natura”, divina e celestiale a volte, diabolica e nera in altre.
Fu così anche nei diversi anni trascorsi in Italia, quando riuscì infine a condurre il Napoli a vincere ben due scudetti, nel 1987 e nel 1990, appena dopo aver trionfato nella Coppa del Mondo e appena prima di perdere la seconda nella finale di Milano, dopo aver eliminato l’Italia nella semifinale infinita giocata nella sua città. Che per l’occasione mise da parte il tricolore e tifò svisceratamente per Diego.
Tornarono a mente i rancori borbonici, di un Regno del Sud ormai perduto e annesso all’Italia savoiarda che l’aveva congelata alle sue baronie secolari, infine sfogati grazie ai successi del “clan Maradona”, un gruppo unito sempre più padrone del campionato di calcio e della cronaca giornalistica. Una città che iniziava quindi a recuperare la sua dimensione di antica capitale europea e marittima, sottomessa invece al potere dei patronati signorili o della camorra. Con cui Diego ebbe frequentazioni, anche in pubblico, dato che era una presenza abituale anche fra la tifoseria partenopea. Un fatto che però non scandalizzava più di tanto i napoletani, ormai totalmente stregati dalle magie del funambolo argentino e dei suoi sodali brasiliani e nazionali italiani.
In quel momento, Maradona era il re del calcio italiano e mondiale, sebbene dividesse gloria e cronache sportive con gli altri grandi numeri dieci del tempo, a cominciare da Platini per arrivare a Zico: il primo era il suo alter ego per eccellenza, elegante, elitario, riservato; l’altro aveva una classe immensa, rappresentava l’alternativa brasiliana a Diego, ma fu perdente e poco apprezzato in Europa.
Giunsero altri grandi campioni a giocare in Italia, in quegli anni, sfruttando le disponibilità di budget miliardari dei club (pensare che Zico andò a giocare nell’Udinese neopromossa in A…) e l’apertura fino a tre giocatori stranieri per club. Così il nostro campionato divenne il più bello, ricco e vincente di quel decennio. Che vide Juventus, Roma e Milan arrivare in finale di Coppa Campioni dopo tantissimi anni di assenza delle squadre italiane, nonché successi nelle coppe minori anche per lo stesso Napoli di Maradona. Che rimane ancora oggi l’unico trofeo europeo vinto da una squadra del Meridione.
Dopodiché la stella del calciatore più famoso del mondo iniziò a spegnersi. Lasciando per sempre il dubbio su chi sia stato il miglior giocatore della storia del calcio o perlomeno il miglior numero dieci. Sono giudizi difficili da esprimere. Personaggi che hanno vissuto in epoche diverse, in paesi differenti, quando la tv c’era ma non aveva l’influenza che ebbe invece proprio a partire dall’epoca maradoniana. Valgono di più gli oltre mille gol e i tre titoli mondiali di “o rey” o le imprese solitarie dal “pibe de oro”? Era più bello a vedersi il “golden boy” o “le roi”? Oppure, entusiasmavano di più gli slalom del “divin codino” o le galoppate irruenti dell’”olandese volante”? Non lo sapremo mai. Tutto rimane negli almanacchi del calcio e nelle immagini che ognuno di noi porterà per sempre nella mente e nel cuore.
E in questo posto, certamente, Diego avrà sempre un posto riservato. Un angolo speciale. Dove la sua stella brillerà in eterno, anche quando non ci saremo più. Quando il calcio sarà diventato un videogame sotto il dominio del dio VAR e degli sponsor pubblicitari. A noi basterà tirar fuori una vecchia videocassetta, oppure aprire l’album dei ricordi, e tutto tornerà come quando c’era lui. E tutti gli altri. I numeri dieci fantasiosi, eroi, che calciavano punizioni paraboliche o facevano assist deliziosi facili da realizzare per chiunque. Anche per un adolescente ai primi calci.
Grazie Diego per la poesia che ci hai regalato con le tue giocate. Grazie a tutti voi, campioni senza età, che ci avete riempito le domeniche con colpi geniali e micidiali. Grazie per aver indossato quella maglietta così pesante con tanta leggerezza e aver illuminato un cielo altrimenti triste e vacuo in questo dopoguerra infinito. Grazie e dieci e lode a tutti voi!