“Nella vita non c’è gran scelta: o marcire o ardere.”
Così Joseph Conrad. Drastico e secco. Come era suo stile. E profondamente scettico, anzi cupamente pessimista sulla natura umana. E chi abbia letto “Cuore di Tenebra” non può non essersene reso conto.
Polacco,- o meglio, originario di quella parte della Ucraina che era sotto il dominio di Varsavia – quello che poi diventerà Conrad padroneggiava perfettamente due lingue. Il polacco e il francese. L’ inglese lo imparò solo dopo i vent’anni, quando cominciò a navigare su navi britanniche, inseguendo il sogno di una vita avventurosa nelle terre d’Oriente e d’Africa. Eppure, divenne in breve un maestro nell’usare la lingua di Shakespeare, il poeta che, probabilmente, più amava. In fondo, la palese dimostrazione che ebbe ragione Cioran, quando scrisse, all’amico lontano, Dinu Noica, che non si abita un paese. Si abita una lingua.
Per molti Conrad fu un romantico attardato. Con la passione dei mondi esotici. Per altri, uno degli iniziatori del romanzo modernista.
Sinceramente, è una questione critica che non mi dice nulla. Per me, resta valido il giudizio di J. L. Borges. Conrad è un grandissimo scrittore. Capace, come ben pochi altri, di indagare gli abissi dell’animo umano. E gli sfondi esotici delle sue opere, servono a mettere alla prova l’uomo moderno di fronte a situazioni estreme. Il Kurz di “Cuore di Tenebra” ne è la incarnazione . La volontà di potenza dell’occidente, che si traduce in, disperato, nichilismo. Distruggendo ogni cosa. Fino a divenire cupio dissolvi. Ansia di autodistruzione. Tra le righe, poi, forse la critica più lucida e spietata all’imperialismo britannico. Conrad guarda all’Impero con occhio totalmente diverso da Kipling. Nessun, orgoglioso, fardello dell’uomo bianco. Piuttosto un senso di, profonda, nostalgia, tutta slava, per un passato, culture e tradizioni, che proprio l’uomo bianco andava distruggendo. Per sempre.
Marcire o ardere. In qualche modo riassume tanto la vita che la visione di Conrad. Che fu, per gran tempo, un nomade. Un nomade del mare, e un nomade della scrittura. Inquieto. Tormentato.
Fu una scelta. L’alternativa era restare fermo. Non solo, e non tanto, fisicamente. Fermo nella mente. Fermo nelle emozioni. Di fatto, morto. Anzi, putrescente.
Scelse una vita, e una scrittura, febbrile. Appunto, perennemente ardente di un fuoco che mai si è veramente placato. Neppure negli ultimi anni, dedicati solo allo scrivere. Perché non poteva più viaggiare. La salute, da sempre malferma, non glielo permetteva. Ma, forse proprio per questo, trasfuse quell’ardore nelle opere. Rivivendo , e trasfigurando, ciò che aveva attraversato nei decenni precedenti. Dal Negro del Narcissus, sino alle profondità spaventose del fiume Congo. Un gigantesco serpente d’acqua, che strisciava nel cuore, più tenebroso, dell’Africa.
Marcire o ardere. In fondo non solo per Conrad è l’unica, vera, alternativa. Tutti, o quasi, nella prima giovinezza, addirittura nell’infanzia, nutriamo grandi speranze. Sogni. Ideali. Tutti…per lo meno tutti coloro che sono vivi…perché molti, troppi, nascono ormai già morti e giovani lo sono solo biologicamente. Mai nella mente e nel cuore.
Comunque, la giovinezza è (o dovrebbe essere) ardore. Come dice Ungaretti “ardere di inconsapevolezza”. Ardere che viene, a poco a poco, spegnendosi con gli anni. Perché si diventa consapevoli della realtà, dei limiti, degli obblighi. Si prende atto della gabbia in cui ci lasciamo rinchiudere.
La chiamiamo “maturità”. Buon senso. Senso comune. Responsabilità….
Ma è davvero così? Oppure è solo la perdita di quello slancio interiore che era proprio degli anni giovanili?
Julius Evola, il Barone, di fronte a giovanotti animati da nietzschiana volontà di potenza, che gonfiavano il petto in atteggiamento titanico, era solito dire, con ironia, “vi aspetto alla soglia dei trent’anni”.
Già, perché il guerriero dei sogni, il titano, facilmente si trasforma in un family man, in uno yuppies in carriera. In Domingo l’ometto casalingo.
Come nella canzone di Gino Paoli “Eravamo quattro amici al bar”. È di segno politico formalmente opposto. Ma l’esperienza è la stessa.
Perché se non continui ad ardere, marcisci. E lo vediamo ogni giorno intorno a noi. Lo sperimentiamo in, antichi, amici. Che vagheggiavano rivolte e rivoluzioni – o contro rivoluzioni – sognavano di vivere una età eroica, e ora sono già in fila per la quarta dose del vaccino, girano con la mascherina doppia, tremano di paura per uno starnuto…. Oppure miravano ad Amori Immortali. Ad esperienze sovrasensibili. A viaggi danteschi tra i Mondi ultraterreni. E ora sono devoti alla Chiesa di Bergoglio, l’amuchina nell’acqua santiera, la paura della morte come icona sull’altare.
Ribelli che invocano Draghi come Salvatore. E si preoccupano solo di poter andare in ferie al mare. Con la moglie. E, magari, con l’amante nella spiaggia vicina. Bei quadretti di ipocrisia. Recite, dunque, di una vita non più vissuta. Che è solo un, più o meno lento, marcire.
Lo possiamo vedere negli altri. Perché evitiamo gli specchi con cura. Per non incontrare i nostri occhi. E vedere quanto si sono spenti.
Ardere, certo, è difficile. Doloroso. E non è facile continuare per tutta la vita. Conrad non ci dice come sia possibile. Si limita ad osservare, con la sua lucida penetrazione della psiche umana, che se non ardi, marcisci. E ci invita a ritrovare e rinnovare il potere interiore del Fuoco.
Il Fuoco dal profondo del Don Juan di Castaneda. Il fuoco di cui parlano Leo e Iagla in Ur…
Ma questo ci porterebbe troppo lontano. Ad altre storie. Che non so se sarei in grado di raccontare…