Nata a Mosca l’8 ottobre 1892 e morta suicida, impiccandosi all’ingresso di un’isba sulle rive del fiume Kama, nel villaggio di Elabuga il 31 agosto 1941, Marina Cvetaeva, colei che Josefe Brodskij definì il primo poeta del Novecento, è una delle voci più alte e sofferte della poesia russa del XX secolo. Venuta al mondo in una famiglia culturalmente e socialmente significativa della Mosca zarista, fin dall’infanzia poliglotta (le sue iniziali composizioni letterarie e poetiche in russo, francese e tedesco datano al primo decennio di vita) all’inizio del Novecento soggiorna con la mamma e la sorella, per ragioni di salute, sulla riviera ligure di Nervi.
Del soggiorno nerviese Marina e la sorella Anastasia avranno una memoria indelebile, ricordandolo evocativamente come luogo concreto, della memoria e del sogno, sfondo in cui reminiscenze infantili ed echi viscontiani si mescolano con la quotidianità dei gesti familiari. “ Nervi, amato paese. Un soggiorno in riviera di Marina Cvetaeva”, edito dalla Sagep di Genova nel 1989, tratto dalle Memorie della sorella Anastasia, ripubblicato nel 2012 , rievoca splendidamente l’infanzia spensierata e felice delle due sorelle russe.
Con l’avvento della rivoluzione russa, della dittatura leninista e poi di quella staliniana, man mano che la ferocia ed il terrore comunista si impadroniscono del paese, la vita di Marina ha un brusco cambiamento. Lacerata da conflitti interiori e famigliari, è travolta dal fatto che il marito, sposato in gioventù, Sergej Efrem, milita come ufficiale dell’Armata Bianca anticomunista nella guerra civile. Sergej, all’insaputa di Marina, sarà arrestato e fucilato dalla N.K.V.D. Inizia il periodo dell’esilio, prima a Praga, poi a Berlino e Parigi, in umilianti ristrettezze economiche, con il mondo degli esuli, immeschinito da piccole rivalità e vecchi rancori, mentre i servizi segreti staliniani riescono ad infiltrare l’eterogeneo mondo della diaspora.
Ormai poetessa nota, ma osteggiata dal regime comunista e isolata dalla comunità letteraria marxista, nel 1939 allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale torna a Mosca col figlio Georgij detto Mur. L’aveva preceduta l’altra amata figlia Ariadne Efrem, tornata nella capitale sovietica nel 1937, ma subito imprigionata e mandata in un campo di lavoro. Il 31 agosto 1941, cosciente, coraggiosa e consapevole, con il suo tragico suicidio, Marina consegna alla posterita’ una vita errabonda e disperata, dedicata alla poesia, all’autenticità, alla libertà di spirito, di espressione sessuale e sentimentale.
Particolarmente suggestivo ed emotivamente introspettivo il suo epistolario con alcuni dei nomi più importanti della poesia e della letteratura del Novecento, come Boris Pasternak e Rainer Maria Rilke. La sua poesia ha risentito l’influenza di Majakoski e dei futuristi italiani, del movimento simbolista, con molte simbiosi coi romantici tedeschi e con la poetica di Puskin. Un bel ritratto del milieu umano, intellettuale ed esistenziale della cultura, della poesia e della musica russa di quegli anni, sotto l’asfissiante cappa di piombo del regime staliniano, ci è dato dal riuscito romanzo storico di Giuseppina Manin “Complice la notte”, edito da Guanda, che è risultato secondo per un soffio al Premio Acqui Storia 2021.
E’ ben descritta la terribilità emotiva e la precarietà esistenziale di quegli anni e la consonanza culturale di personalità eccezionali ed amiche come Boris Pasternak, Maria Judina, Mandelstam, Achmatova e Marina Cvetaeva. In Italia, nonostante la grandezza poetica di Marina sia stata da subito unanimemente riconosciuta in tutto il mondo, l’egemonia culturale marxista ha ritardato la pubblicazione dell’opera della Cvetaeva. La prima edizione italiana delle sue “ Poesie” è del 1967, ad oltre venticinque anni dalla sua morte, nelle traduzioni di Serena Vitale e Giovanni Ansaldo.
Un adeguato riconoscimento è intervenuto da Mondadori nel 1983 con le “Le Notti fiorentine.Lettere all’amazzone” a cura di Serena Vitale e nel 1984 con “ Il Poeta e il tempo” per la raffinata Adelphi. Tradotto da Annalisa Comes per la Casa Editrice Le Lettere di Firenze “Il ragazzo” nel 2000, riedito nel 2016 e profondo il saggio di Henri Troyat “Marina Cvetaeva: l’eterno ribelle”, sempre nella traduzione di Annalisa Comes. “Marina. Nemmeno io sapevo di essere un poeta” è anche un raffinato ed essenziale spettacolo di prosa e danza della durata di 80 minuti, da un’idea della coreografa russa Tatiana Stepanenko, della giovane e affascinante ballerina Giorgia Zunino, già eccellente Gamzatti nella “Bayacere” e dell’attrice Monica Massone. Le tre interpreti inscenano un viaggio attraverso fragilità, vita, amori, sofferenze, separazioni, drammi della vita tumultuosa e vulnerabile di Marina, oscurata dal regime sovietico a causa della sua contraddittorietà ai dettami ideologici e comportamentali del comunismo. Il filo conduttore è l’interpretazione, attraverso la dizione e la danza, della poesia e della corrispondenza epistolare che la Cvetaeva compone tra il 1913 e la morte, senza alcun intervento esplicativo, lasciando la parola solo ai versi e alle lettere della poetessa.
Giorgia Zunino danza l’anima giovane, amori, abbandoni di Marina; Tatiana Stepanenko la sofferenza, la solitudine, l’umiliazione, il fallimento della maturità della Cvetaeva, prima del tragico suicidio. Sulla scena Monica Massone interpreta con bravura una donna coraggiosa, anti convenzionale, le sue passioni e le sue contraddizioni e parti del suo carteggio sublime con Pasternak e Rilke. E’ uno specchiarsi tra danza e parola, sottolineato dalle musiche di Shostakovich, Handel e Schnittke. Essenziale la scenografia,soltanto un tavolo da scrittura e due sedie e l’inseparabile taccuino su cui Marina annotava ogni sua riflessione e ispirazione poetica. Un’ora e mezza di grande impatto emotivo, di grande capacità attoriale, elegantemente e drammaticamente danzato, degno di qualche importante teatro stabile o d’opera.
1 commento
Quando leggo il nome della Cvetaeva, sento sempre stringermi il cuore, quasi mi affiorano le lacrime, pur nella mia ignoranza.
Una donna che ha dovuto persino scegliere quale figlia salvare,non soccorsa,infine,neppure dall’ amico-amante Pasternak che,a differenza di Rilke,non era morto.
Nessuno avrebbe potuto salvarla, ma io ho visto in lei una donna che amava la vita, la Vita che poi non può che combaciare con l Amore stesso. È Eros,infatti,a contrapporsi a Thanatos.
Quando l’ ultimo slancio d amore, l’ ultimo alito, soffio vitale è svanito, perso,quasi tradito,forse solo allora Marina ha alzato l’ultimo brindisi.
Da vincitore.
Ed immortale ci anima.
Un compositore contemporaneo le ha dedicato un brano struggente,che inizia proprio con alcuni suoi noti versi.
Max Richter -MARIA,THE POET.