Nella bravata degli imbecilli che hanno adornato un albero natalizio con palline raffiguranti l’effigie di Hitler non riesco a scorgere altro obiettivo che quello, pienamente raggiunto, di conseguire il warholiano lampo di celebrità. Fatico a pensare che questa banale fesseria abbia dignità di attacco alla democrazia e alle istituzioni, come molti commentatori hanno sostenuto, la cosa sarebbe anzi preoccupante.
D’altronde, l’elevazione del nazismo alla potenza di male assoluto non può non generare azioni del genere, che a chi le compie offrono un vantaggiosissimo rapporto tra il rischio irrisorio e la deprimente gratificazione di sentirsi parte di quell’assolutezza negativa.
Il pur marginalissimo episodio consente insomma di riflettere una volta di più sui conti con la nostra storia novecentesca, ancora ampiamente sospesi e oggettivamente complessi, si pensi solo alla surreale situazione di Vladimir Putin, leader ascritto sbrigativamente alla destra che però sostiene il nostalgismo filo-sovietico.
È indubbio che un’efficace e corretta azione pedagogica, didattica, formativa e culturale al riguardo sarebbe utile, ma se è facile a dirsi, lo è molto meno a farsi. L’auspicio ingenuamente buonista che vorrebbe vaccinare cittadini e soprattutto giovani da tentazioni dittatoriali rappresenta un deficit model di scarsissimo successo, giacché nel marasma smemorato dei nostri giorni si rivangano mitologie politiche delle quali si ignorano persino i fondamentali. La controproducente deriva retorica è sempre dietro l’angolo del libro, del documentario, della lezione.
Da qualche tempo però, nel tentativo di evitarla, si sta imponendo un genere letterario misto, che combina la forma narrativa con la documentazione saggistica. Temi, combinazioni, finalità di queste opere sono diversissimi e spesso ottengono successi notevoli. Per esempio la divulgazione scientifica anglo-americana, con ponderosi quanto avvincenti volumi come “L’imperatore del male. Una biografia del cancro” di Siddhartha Mukherjee. Oppure, per la letteratura nazionale, i libri della coppia Francesco Sorti-Rita Monaldi, quali “Malaparte. Morte come me” e “Dante di Shakespeare. Amor ch’a nullo amato”.
In questo ampio scenario si inserisce ora il “Diario dell’ultima notte. Ciano-Mussolini lo scontro finale” di Mauro Mazza, edito da La Lepre. Se non fosse per la specifica “romanzo” apposta in copertina, si potrebbe pensare all’ennesima, presunta scoperta di un carteggio capace di riscaldare uno dei “cold case” più tipici della storiografia sul Ventennio. Le figure di Galeazzo Ciano e della moglie Edda Mussolini compongono la coppia sempreverde di un nerissimo feuilleton fatto di amore e morte, di un intreccio parentale schizofrenico: figlia e moglie, marito e genero, con un Duce nonno, padre, suocero… Gli elementi romanzeschi, per l’appunto, ci sono tutti. E quelli di interesse storico non mancano di certo.
Tra questi, quello che Mazza valorizza è forse il più rilevante e interessante: la corrente fascista che potremmo definire, con minimo beneficio di dubbio, come “antinazista”. Certo al termine non possiamo dare la valenza attuale né un’accezione ideologica, che peraltro negli anni in cui la vicenda si svolge era quasi del tutto assente.
Bisognerebbe davvero riflettere più accuratamente sul fatto che, in Germania, la vera e propria opposizione a Hitler fu politicamente meno rilevante di quella fronda che però salì alla ribalta solo quando si trasformò in rivolta, con il fallito attentato del 1944. Una fronda costituita dalla nobiltà che aveva sostenuto Hitler nell’iniziale illusione di poterlo controllare e che, soprattutto, condivideva il disegno-sogno del Terzo Reich, svanito il quale cercò di liquidare il Fuhrer per salvare il Paese dalla rovina. E che, a proposito di storia romanzata, ha ispirato tanta narrativa: dal toccante racconto di Fred Ulhman “L’amico ritrovato” all’assai meno memorabile film “Operazione Valchiria” (sul periodo meritano poi la citazione i romanzi di Hans Fallada ed Erich Maria Remarque).
Ma, soprattutto, l’antinazismo fu una posizione pragmaticamente politica e non ideologica né tanto meno umanitaria a livello internazionale. I Paesi che scesero in guerra contro la Germania lo fecero per frenarne l’espansionismo: la Russia, in particolare, finché le fece comodo strinse con Berlino una sciagurata alleanza; gli ebrei perseguitati non ottennero quasi aiuto, com’è tristemente noto; negli Usa Hitler era oggetto di dileggio mediatico più che di una convinta demonizzazione, basti ricordare al riguardo “Il grande dittatore” che Charlie Chaplin realizzò nel 1940.
In tal senso, Ciano fu sicuramente antinazista, oltre che un fascista “sui generis”. Il legame famigliare e affettivo con Mussolini da un lato ne condizionò l’operato, dall’altro gli concesse maggiori margini polemici. La sua fortissima avversione personale nei confronti del Fuhrer e del suo regime non bastarono però a convincere il Duce e a salvarlo dalla catastrofe. Né, quindi, servirono a limitare il pesantissimo costo che l’Italia dovette pagare durante e dopo il conflitto nel quale si alleò con la Germania, in base alla convinzione mussoliniana di una vittoria certa e rapida.
Ce n’è abbastanza per consentire a Mazza di costruire un romanzo storico che sicuramente appassionerà gli amanti del genere anche se, presumiamo, non lo salverà dalle accuse di “revisionismo”. In questo senso, è indicativo il rimando esplicito del libro a Giorgio Pisanò e Giampaolo Pansa, due giornalisti che, partendo da sponde ideologiche molto lontane, si sono ritrovati nella descrizione di un fascismo in chiaroscuro, lontano anni luce dalla demonizzazione manichea della “lectio” prevalente e, fino a qualche tempo fa, esclusiva. Quel manicheismo del quale è stata recente espressione un altro romanzo storico, “M. Il figlio del secolo” di Antonio Scurati: un libro rispetto al quale “Diario dell’ultima notte” potrebbe ora essere assunto come una sorta di antagonista. Ricordiamo che Scurati è stato accusato anche “da sinistra” di avere utilizzato la mescolanza tra invenzione letteraria e dati storici per distorcere i secondi a favore della prima, in un preciso senso ideologico. Ed è ovviamente sempre questo il rischio soggiacente nella scelta della fiction, che però ha l’indubbio merito di avvicinare ampli pubblici a fatti, epoche e personaggi di cui rischiamo di perdere la memoria.