Non ho alcuna voglia di parlare di questo tema. Della tragedia della bambina che la madre ha uccisa a colpi di coltello. Dicono, per vendicarsi del padre.
Non ho voglia di spargere lacrime ed inchiostro (entrambi virtuali) per evocare, anch’io, l’orrore e il dolore che un tale fatto di cronaca suscita. Per unirmi al coro, di fatto unanime, che definisce il delitto come contro natura, quanto di più alieno possa esservi dalla nostra idea di maternità. Dalla nostra concezione della famiglia, come luogo sicuro. Nido. Che ci protegge e ci riscalda.
Non ne ho voglia…perché non è vero. Semplicemente. Non è neppure un’idea, un mito, come quello sul fondo dei Malavoglia di Verga. È solo un’oleografia. Una cartolina, o, se preferite, un film di Natale americano. Che a me piacciono, sia chiaro. Ma che sono falsi. E Monicelli ne ha genialmente stravolto le coordinate in “Parenti serpenti”. Forse il suo film migliore, anche se meno noto.
Per chi conosca i tragici greci – e i loro epigoni – risulta evidente come la famiglia non sia il luogo sereno e felice di tale, moderna, narrazione oleografica. Al contrario, è il luogo privilegiato del tragico.
Edipo e la sua descendenza, Tieste, Medea…parricidi e incesti. Fratelli che si odiano. Una madre che uccide i figli…
Il senso profondo della tragedia greca trova nella famiglia la sua massima espressione. Perché è un senso sacro. Che vuole, attraverso la rappresentazione delle colpe più turpi, procedere alla purificazione dell’anima. In modo…traumatico. Che non passa attraverso la coscienza razionale. Coinvolge, e stravolge, il mondo emotivo. Le profondità della psiche. Gli abissi dell’anima.
Freud lo intuì. E cercò di darvi una spiegazione con il concetto di “inconscio”. Ripreso dalla filosofia di von Hartmann. Perché il padre della psicoanalisi non era un filosofo. E dovette mutuare (e anche rubare) i concetti da pensatori suoi contemporanei.
Aveva intuito. Ma neppure lui riuscì davvero a cogliere la complessità del mito tragico.
Un mito, quello greco, che, paradossalmente, fonda l’importanza della famiglia, come base della comunità umana. Ma lo fa non sul “volemose bene”. Sull’affettazione dei buoni sentimenti. Lo fa sulla tragedia. Sul sangue e sulla violenza. Sulle passioni dirompenti e devastanti. Perché solo conoscendole, e purificandole, attraversando la catarsi, una comunità umana può crescere. Ed essere saldamente fondata in se stessa. Alle origini della nostra civiltà c’è la stirpe di Laio. Non la famiglia Cunningham di Happy Days.
E veniamo a Medea. Alla madre che uccide i suoi figli. Che suscita un orrore maggiore di qualsiasi altro. Perché, appunto, ci sembra contro natura. Soprattutto a noi italiani, che nutriamo e enfatizziamo da sempre il mito della Mamma..
Eppure madri che uccidono i figli non sono un fatto così unico. Ogni tanto un episodio, un dramma, balza alla ribalta della cronaca. Si accendono i riflettori. Si sversano fiumi di parole. La memoria corre al caso di Cogne. Che divenne nazionale. E divise l’opinione pubblica in opposte tifoserie. Manco si trattasse di Lazio vs Roma.
Più spesso, però, si passa la notizia sotto tono. La si ricaccia, frettolosamente, nei sotterranei e nel silenzio. La si etichetta come follia. Malattia mentale.
Ma Medea, in Euripide, tutto è meno che malata di mente. Feroce, selvaggia. Barbara. Ma non pazza. Il suo gesto ha un senso ben preciso nel contesto della cultura greca. I figli appartengono al padre. Giasone l’ha tradita e abbandonata. E lei lo punisce colpendolo proprio in ciò che per un uomo greco era la cosa più importante. La prole. Ovvero la continuità del suo sangue. Della sua stirpe.
Ma le odierne emule di Medea? Perché uccidono i figli? Il rapporto è, in verità, completamente rovesciato. La nostra (diciamo così) cultura considera i figli proprietà, anzi roba della madre. È lei che decide se portare avanti la gravidanza, o abortire. Cosa, per inciso e senza alcuna vis polemica, che è gesto non diverso da quello di Medea. Solo che, siccome il bambino ancora non si può vedere e coccolare, non suscita praticamente alcun orrore. O ripulsa. L’utero è mio e me lo gestisco io…già, una grande conquista per le donne.
Solo che, poi, non puoi trovare aberrante se qualcuna continui, subconsciamente, a considerare roba sua il prodotto uscito da quell’utero. E a ritenersi in diritto, sempre nell’inconscio ovviamente, di sbarazzarsi di quel prodotto. A suo insindacabile giudizio. Per rabbia. Per stanchezza. Per noia di una vita troppo condizionata dalla cura materna…per un desiderio di tornare libera… E allora…
E allora ho già detto troppe cose politicamente scorrette. Rischio la gogna e la canea degli zeloti dei diritti delle donne. Forse mi salverà il fatto che ben pochi leggono questi miei pezzi…
Però una cosa la voglio aggiungere. Medea ha una grandezza tragica, e in fondo un’umanità nel compiere il suo crimine, che ci tocca nel profondo. Che ci fa pensare. E, alla fin fine, ci aiuta a purificare la nostra mente.
Queste, odierne, sue emule trasmettono solo una sensazione di tristezza e squallore. La tristezza e lo squallore in cui è precipitata la nostra società.
1 commento
Una sintesi che trovo perfetta e in cui leggo le mie stesse riflessioni,tenute per me, giacché parlare nel mondo in cui mi tocca scontare questa mia esistenza, è puro flatus vocis.