Il cognato ministro vuole fare entrare in Italia mezzo milione di migranti per offrire nuovi schiavi alle imprese italiane che frignano per la difficoltà di trovare manodopera pronta a farsi sfruttare senza protestare. Nel frattempo persino il confindustriale Sole 24 Ore “scopre” che la fuga dei cervelli italiani è motivata dalle demenziali leggi sulla flessibilità (quelle immancabilmente elogiate dai politici di quasi ogni colore) e dalle retribuzioni indecenti.
Secondo le statistiche ufficiali, infatti, negli ultimi 10 anni sono stati 250mila i giovani laureati fuggiti dall’Italia, un quarto degli emigrati complessivi. Perché il problema dello sfruttamento e della precarietà riguarda tutti, non solo i laureati. E le figure professionali così irreperibili in Italia vengono facilmente trovate dagli imprenditori stranieri che offrono salari adeguati e contratti stabili. Strano che gli imprenditori italiani non se ne siano accorti.
Quanto ai laureati, è impressionante il rapporto tra coloro che fuggono e coloro che arrivano nei vari Paesi. L’Italia è al secondo posto per l’emigrazione di “cervelli”, alle spalle della Romania. Ma l’esodo inizia già prima, durante gli studi universitari. Con un 4,2% di fughe e 2,9% di arrivi dall’estero. E siamo gli unici con dati negativi tra i principali Paesi. Negli Stati Uniti le uscite rappresentano lo 0,6% contro il 5,1% di ingressi; la Gran Bretagna ha l’1,5% in uscita e il 20,1% in entrata; la Germania il 3,8% e l’11,2%; la Francia il 4% e il 9,2%; la Spagna il 2,2% e il 3,8%; il Portogallo il 6% e l’11,6%.
Sarebbe doveroso farsi qualche domanda. Ed anche fornire delle risposte. Ma è meglio evitare. Perché significherebbe ammettere che la capacità di attrazione dell’Italia è pari a zero in termini di occupazione di livello elevato. Solo braccia, solo disperati privi di professionalità, di competenze.
Strano, vero? Strano per il cognato ministro, per i responsabili dei dicasteri del lavoro, dell’economia, del made in Italy. Strano per Confindustria e per le altre associazioni di categoria. Eppure i dati ufficiali dovrebbero aiutare a capire. I nostri laureati, all’estero, non sono soggetti al finto lavoro autonomo; la percentuale di contratti a tempo indeterminato è doppia rispetto a quella italiana; le retribuzioni, a un anno dalla laurea, sono più alte del 40%; dopo 5 anni sono più alte di quasi il 50%.
Eppure, terminato il breve momento di falso stupore, si torna al piagnisteo quotidiano rilanciato dai chierici della disinformazione: “Spiagge a rischio perché non si trovano bagnini”, “Bar e ristoranti chiusi per mancanza di cuochi e camerieri”, “Nessuno vuol lavorare in fabbrica”. Colpa del reddito di cittadinanza, colpa dei giovani che non hanno voglia di lavorare, colpa delle pretese assurde di chi – secondo Porro e Cruciani – non si accontenta di 400 euro al mese. E che, con una laurea in tasca, accetta invece i 2.300 euro di media offerti in Europa.