Si può ben comprendere la confusione che regna nei palazzi romani da quando i “rappresentanti del popolo” sono stati strappati a spiagge più o meno esotiche e costretti a infilarsi la giacca per partecipare a sedute impreviste.
Meno si comprende che i suddetti rappresentanti si trovino a dibattere di questioni di cui non dimostrano di sapere molto.
Al centro della discussione c’è, come ampiamente esposto dai media, la riduzione del numero dei parlamentari e dei compensi a deputati e senatori.
“Manovratori”, cosiddetti esperti e compagnia cantante sembrano però dimenticare che i Padri costituenti, quando stabilirono numero e retribuzioni, non erano dei pazzi scatenati che volevano mettere a repentaglio i conti pubblici italiani. Nel 1948, quando la Costituzione repubblicana entrò in vigore, in Italia c’erano circa 40 milioni di abitanti. Il numero di deputati e senatori venne stabilito in modo congruo per garantire che il maggior numero di territori fosse rappresentato in Parlamento. Ciò permetteva che i cittadini e le istituzioni locali avessero la possibilità di avere un referente diretto con la politica nazionale.
Oggi la popolazione è aumentata e pare che tutti siano ormai convinti che la democrazia rappresentativa si consumi nell’andare a votare una volta ogni tanto. Il rapporto diretto tra elettori ed eletti si è ridotto alle interazioni via social. I partiti non hanno più iscritti, le sezioni locali sono scomparse, la formazione dei quadri è un vago ricordo. Insomma, si è tornati al rapporto potente/suddito precedente alla nascita degli stati liberali.
E, nonostante ciò, c’è chi chiede che i parlamentari siano ulteriormente ridotti. Perché, allora, non ridurli di più? Uno per partito, con un numero di deleghe pari al risultato elettorale; più o meno come si fa nelle assemblee di condominio.
Sui compensi: è vero che molti hanno nostalgia dei tempi in cui “andare a Roma” era un onore e chi sedeva alla Camera (i senatori erano di nomina regia) non prendeva un centesimo. Si dimentica però che con quel sistema solo i ricchi potevano accedere alle assemblee legislative. E per consentire a tutti di poter essere eletti, i Padri Costituenti decisero di retribuire i parlamentari in modo tale da consentire anche a chi ricco non era di poter far valere il diritto all’elettorato passivo garantito dalla Costituzione.
Si dirà che i tempi sono cambiati, che nel ’48 non solo non c’erano i social ma nemmeno la televisione, e così via. Resta il fatto che sottraendo soldi ai partiti (dall’abolizione dei finanziamenti pubblici in poi) oggi solo chi è ricco sfondato può permettersi di candidarsi. O, se ricco sfondato non è, deve sottomettersi a finanziatori che prima o poi pretenderanno che l’eletto non faccia gli interessi di tutti ma quelli di chi gli ha pagato la campagna elettorale consentendogli di conquistare la poltrona. In barba al principio del “divieto di vincolo di mandato”.