“Sai cosa vuol dire Meraki?” mi chiede al telefono.
Sì, lo so. Ma non sono in grado di tradurlo. E, forse, neppure dì spiegarlo….
La sua voce assume una sfumatura… perplessa.
“Ma tu hai studiato greco…”
Appunto, proprio per questo non so tradurlo….
In greco vi sono molte parole intraducibili. Se non attraverso una, spesso lunga, spiegazione del concetto sotteso. Che, però, inevitabilmente, finisce con il tradire ( tradurre è sempre un po’ tradire, diceva un antico maestro) il senso originario della parola greca. Il suo senso profondo.
Avviene con “Eunòia”. Che, letteralmente, starebbe per “buon pensiero”. Ma che cela molto di più. Un senso di armonia. Di bellezza. Possiamo accennarlo. Alludervi. Non tradurlo.
E avviene, altro esempio, per “Kairòs”. Che è uno dei quattro modi di definite il Tempo.
Ma non il Tempo che scorre.Quello è Chrònos. E neppure il Tempo eterno. Quello è Aiòn. Kairòs viene talvolta reso con “Tempo ( o anche momento) opportuno”. Ma è traduzione impropria. Un autentico tradimento. Perché in Kairòs è insita una visione qualitativa, e non quantitativa, del Tempo. Qualcosa che i Greci antichi avevano. E che, per noi, è invece oramai completamente impensabile. Alieno.
Torniamo, però, a Meraki. Che, per altro, è parola non del greco antico. La troviamo infatti nel dimotikì, il greco volgare, se vogliamo. Formatosi nel lungo periodo della dominazione ottomana. E dal turco, probabilmente, deriva. Con una, remota, radice araba. O almeno così dicono alcuni esperti. Cosa che io non sono.
Però ha una sonorità, e un senso, che non mi rievoca la Grecia classica. Piuttosto il mondo, complesso e chiaroscurale, che descrive Patrick Leigh Fermor in “Mani”. Straordinario racconto dì viaggio nella propaggine estrema del Peloponneso. La penisola di Mani, una Terra sospesa fuori dal tempo. Un luogo dell’anima – e lo scrittore inglese, non a caso, vi trascorse tutta la parte finale della sua, lunga vita – che, però nulla ha a che fare con la nostra idea di “Grecia”….
È l’altra Grecia. Quella selvaggia, se vogliamo “non classica”. Terra di gente dura, Guerrieri e predoni orgogliosi. Tanto amata da Byron. George Gordon, il poeta.
E la sua lingua è impasto di allusioni, evocazioni. Magia.
Meraki….come tradurla?
Vorrebbe dire “Fare qualcosa”. Qualsiasi cosa, non definita. Che so, preparare una zuppa, o curare i fiori. Corteggiare una donna, o arredare la casa per Natale. Giocare con i propri figli, o dedicarsi alla politica…nulla di più vago, insomma. Fare. Ma fare con passione. Mettendoci tutta l’anima, come si suol dire.
Anche questo, però, resta impreciso. E fuorviante. Per cercare di capire, per quel poco che ci è possibile, dobbiamo ricordare che, in greco, “Fare” si dice ” Poièo”. Da cui deriva, in primo luogo, il nostro “Poesia”. Che non è, semplicemente, scrivere delle parole più o meno strane, allineate in modo più strano ancora, sbrodolando sentimentalismi…
È dare forma a…qualcosa. Forgiare dal nulla apparente. Evocare da un altrove che, ordinariamente, resta ignoto.
E fare con tutta l’anima. Un gesto poetico, ancorché semplice. Essenziale. Privo di enfasi e pose.
Meraki è, in ultima analisi, un atto magico. Amare. E infondere amore in ogni cosa. Sospendere il tempo, che tutto erode. Che fugge. Rendere l’attimo…. ogni attimo…. eterno.
Ecco, non so se sia giusto. Ma io la interpreto così.
Ride. Al telefono. Poi…
Meraki!…mi dice.