Ma chi si crederà mai di essere, Vittorio Sgarbi, per sbertucciare l’insigne linguista Mirella Serri che, sulle pagine culturali de La Stampa, ha contestato il fatto che il curatore della mostra sulle opere pittoriche di Julius Evola al MART di Rovereto non abbia stigmatizzato il passato fascista dell’autore di Cavalcare la Tigre!
Puerili le giustificazioni di Sgarbi che ha ricordato: “Il fascismo nasce nel 1922. Evola smette di dipingere nel 1921. Certo, un uomo è responsabile anche per quello che ha fatto dopo. Ed è per questo che noi, seguendo il ragionamento di Mirella Serri sulla Stampa di ieri, usiamo giudicare l’opera di Arthur Rimbaud non sulle sue pagine, concepite entro il 1874, “Illuminations” o “Une saison en enfer” del 1873, ma sui suoi comportamenti dopo il tempo della poesia, quando commerciava in armi con l’avventuriero francese Pierre Labatut e, probabilmente, come riferisce il console italiano ad Aden, faceva anche il mercante di schiavi”.
Inaudito! Affiancare il nome di Rimbaud a quello di chi ebbe l’ardire di scagliarsi contro “i principali focolai di pervertimento della civiltà e società occidentali: liberalismo, individualismo, egualitarismo, libero pensiero, illuminismo antireligioso”. Parole tratte dall’introduzione che Evola scrisse per l’edizione del 1937 de I Protocolli dei Savi Anziani di Sion, ma che l’eccelsa linguista non ha tratto da un’edizione polverosa del testo ma da una “bustina di Minerva” di Umberto Eco ripubblicata – e qui sta lo scandalo nello scandalo – da La Nave di Teseo, casa editrice della sorella di Sgarbi, Elisabetta.
Forse la Serri era impegnata in altre faccende degne dei suoi vastissimi interessi quando al MART si celebrava la figura di Margherita Sarfatti, amante di Mussolini e autrice di una biografia del Duce che negli anni Trenta vendette più di un milione di copie e che fu tradotta anche in turco e giapponese. Ma all’epoca Vittorio Sgarbi non era ancora direttore della galleria d’arte di Rovereto, e conveniva far calare un doveroso silenzio su un evento culturale che non si sposava con le direttive del pensiero unico obbligatorio. Forse perché a curare la mostra era Daniela Ferrari che aveva il torto di essere sconosciuta a Mirella Serri e di certo lontanissima dalla fama mediatica di Sgarbi. Perché se si vuole montare una polemica è meglio farlo se l’obiettivo è un personaggio conosciuto, uno di quelli che persino gli appassionati di reality hanno sentito nominare almeno una volta nella vita.
E la polemica diventa di facile costruzione: basta abbinare ai nomi di Evola e di Sgarbi quelli di Hitler, Borman, dei FAR, di Casa Pound, e persino di Dugin e di Putin. Sorvolando sul fatto che quando Evola morì nel 1972, il presidente russo era un giovane studente universitario al secondo anno dell’Università di San Pietroburgo. Ma si sa: l’arte di costruire abbinamenti arbitrari allo scopo di cancellare il pensiero degli avversari è un sistema usato da decenni dalla Sinistra pseudo intellettuale, arte nella quale lo stesso Eco era maestro.
Rimane il fatto che grazie a questa polemica, che per altro ha avuto ampia eco su social e altre testate – e che abbiamo ragione di credere non si fermerà qui – si è data una pubblicità insperata alla mostra dei quadri futuristi e dadaisti di uno dei più influenti – absit iniuria verbis, per carità! – intellettuali italiani.
E ci auguriamo che la battuta finale della replica di Sgarbi, laddove si afferma “Adesso, anche se come la Sarfatti era una donna, dovrò consultarmi con la Serri, prima di aprire la mostra su Leni Riefenstahl”, non sia soltanto una facezia ma qualcosa di più concreto.