Gòmez Dàvila, in una delle sue, fulminanti, glosse, ci dice che l’opposto del mito non è la razionalità, bensì la… trivialità.
Sembra, a tutta prima, una battuta. Una di quelle con cui il Nietzsche di Bogotà, come qualcuno lo ha soprannominato, amava baloccarsi. Perché i suoi Scholia possono davvero dare, a tutta prima, una impressione di gioco intellettuale, raffinato, elegante… ma pur sempre gioco.
Inevitabile. La nostra (cosiddetta) cultura è passata dalle ardue architetture kantiane, afflitte da una cronica volontà di spiegare e sistematizzare ogni realtà, alla superficialità più assoluta. Quella dei salotti televisivi, ove autoproclamati “filosofi” fanno la ruota come pavoni. In mezzo a nani e ballerine (nessuna allusione all’on Brunetta…).
Non si è compreso ciò che aveva tentato di spiegare, e ricostruire, Giorgio Colli, con i suoi studi su Nietzsche e i Presocratici, con la sua concezione della Sapienza Folgorante. Che è, appunto, intuizione, lampo… che permette di penetrare, anche solo per un attimo, al di là del velo illusorio della realtà razionale.
Conoscenza asistematica… proprio perché ogni sistema è solo un tentativo di ridurre tutto, la meravigliosa complessità del mondo, in una sorta di Letto di Procuste.
Gòmez Dàvila appartiene alla schiera dei pochi che hanno perseguito con coerenza non un sistema che spieghi la realtà tutta, ma l’intuizione, improvvisa, del mistero sotteso alla parvenza del reale.
Lo stesso “girone di dannati” di Ernst Jünger, di Max Stirner, di Donoso Cortès, di Karl Kraus… se vogliamo anche di Oscar Wilde. Senza dimenticare, ovviamente, Nietzsche e Dostoevskij. I Maestri di una Sapienza aurea e folle.
Ma veniamo a questo assunto. Comunemente si insegna che il mito ha fine quando inizia il pensiero razionale. Con i greci, quindi. Le prime scuole, la Ionia, Elea… Pitagora…
In parte può essere vero. Odisseo che acceca Polifemo con l’inganno. La razionalità che vince sul mito.
Tuttavia Platone continua, pur a suo modo, ad usare i miti. Facendo discendere da questi il pensiero razionale. Il livello “imaginale” si invera in una ragione articolata, che spiega e classifica il mondo. Come nel suo discepolo. Aristotele. E Proclo, molto più tardi, spiega questi rapporti di… filiazione. Tra Platone e Aristotele. Fra mito e ragione.
La ragione che nega il mito, che lo contrasta e uccide, non è vera ragione. È un modo di pensare basso, volgare. Triviale appunto.
Perché l’incapacità di vedere, o anche solo sospettare, un livello di coscienza superiore a quello della ragione che pesa e misura le cose, è, in fin dei conti, dimostrazione di degrado. Di un abbassarsi, se vogliamo di un cadere nel fango.
Il Dio biblico, come il Prometeo greco, plasma il corpo dell’uomo con il fango. E vi insuffla la vita. L’amima. Ànemos, Spiritus. Pneuma, il soffio. Il vento. Ridurre tutto a cose che si possono vedere e toccare con i sensi, non è razionalità. È compiacersi di sprofondare nel fango. Cosa quanto mai triviale, come coloro che trovano eccitanti i corpi di due belle donne che lottano nella mota. Ogni bellezza viene sporcata. E perduta.
È così in ogni ambito. La politica senza il mito perde il suo senso superiore. Diviene cosa da faccendieri. Gioco di (bassi) interessi. Pura brutalità e sopraffazione. La legge del più forte. Homo homini lupus. Senza alcuna speranza di luce.
La migliore cultura del ‘900 ha sempre inseguito il recupero del mito. Poeti come Pound, Pessoa, in Francia Valéry, i nostri Pascoli e D’Annunzio. E Valéry, per fare solo un esempio, era un matematico. Sapeva che la ragione astratta, la più alta e pura, sfociava nel mito. In una capacità di pensare per immagini cosmiche. Questo il senso di opere come “La giovane Parca”.
I concetti astratti e i grandi ideali concepiti razionalmente, rappresentano un anelito verso la dimensione mitica perduta. Bellezza, Giustizia, Libertà e altro ancora non sono cose misurabili. Non sono oggetti fisicamente tangibili. La ragione pura rappresenta un percorso per tornare al mito. Al pensiero imaginativo.
La, cosiddetta, ragione che nega e contrasta il mito, che non cela più alcun anelito ad uno spazio più limpido e arioso, è cosa, come dice Gòmes Dàvila, da trivio.
È il modo di pensare, basso e volgare, dello speculatore economico. Che tutto subordina all’interesse materiale. Al denaro, cui ambisce con tutte le sue forze. Senza rendersi conto che anche il denaro altro non è che una astrazione. Ed ha una sua radice nel mito.
Ma il grande finanziere, il politico politicante, l’intellettuale moderno sono incapaci di autentico pensiero razionale. Contrastano il mito…. peggio, se ne fanno beffe.
Il loro ragionare è più basso, triviale, di quello della donna di strada o dello spacciatore di droga nelle periferie degradate.
Per questo il declino della nostra società sembra inarrestabile. Il trivio melmoso e putrido è l’unico fondamento e meta.