Dicono che Beethoven avesse sentito, probabilmente in una delle sue notti insonni, poco prima di morire di polmonite a Vienna, una musica incredibile. Inafferrabile. Sublime. Voleva scriverla, ma non ne ebbe il tempo. Sarebbe stata la decima sinfonia. Il capolavoro assoluto. E il vertice di un’opera immane.
E quando la sentì, Ludwig Van (come lo chiama il protagonista di “Arancia Meccanica” di Anthony Burgess) era, ormai da tempo, avvolto nel più assoluto silenzio. Sordo profondo. Ma in quella sua sordità, per qualsiasi altro incapacitante, aveva composto capolavori straordinari. Gli ultimi Concerti per Pianoforte, 30, 31, 32….le Variazioni Diabelli, un valzer di note che evocano un susseguirsi incredibile di immagini e colori. Gli ultimi Quartetti. E, poi, la Nona Sinfonia. Di cui parlare è inutile. O meglio, impossibile…
Ma quella Decima non arrivò a scriverla. Forse perché era qualcosa che non poteva diventare alla portata degli strumenti umani. Forse perché era solo un dono destinato a lui. Un dono giunto dagli Dei. Ovvero dalle Stelle. Che, come scrive Platone, sono l’apparenza sensibile degli Dei. Ovvero dei Luminosi. El Elohim, in ebraico. Le Luci che creano il mondo. Rigorosamente plurali. Prima che arrivasse il monoteismo. E ci si inventasse la fola del pluralia majestatis…
Pitagora insegnava ai suoi allievi che il Cosmo è regolato da rapporti matematici. E quindi dalla musica. Lo insegnava, anche se mai nulla scrisse. Se non, forse, i Versi Aurei. Ma Platone, che di Pitagora si proclamava remoto discepolo, ne ha parlato e scritto diffusamente. La credenza in una Musica che viene dal Cosmo è, tuttavia, molto più antica. Ci riporta all’India vedica. E ancor prima. E ne troviamo ancora un’eco – termine, mi sembra, quanto mai appropriato – nel tamburo degli sciamani.
Tutte le culture, tutte le fedi si sono espresse prima con la musica. Poi con le parole, che in fondo altro non sono che suoni, quindi note, articolate dalla voce umana. Mentre la musica pura ha qualcosa di sovrumano. È linguaggio universale. Non soggiace ai limiti di comprensione concettuale. È oltre. E tocca profondità del nostro essere celate. Di cui noi stessi non siamo coscienti.
Uomini che parlano lingue diverse, che nutrono credi diversi ed hanno usi incompatibili, si emozionano ascoltando la stessa musica. È una sorta di unità trascendente che si manifesta nel suono puro. Ancora non determinato in concetti e parole. Appunto per questo… puro, e perciò possente.
E la moderna astrofisica avrebbe scoperto che dalle galassie lontane, dalle nebulose più remote, giungono impulsi che sembrano suoni. Sinfonie se vogliamo. Scoperta stupefacente. Solo che già lo sapeva Pitagora. E lo sapevano i Brahmani antichi.
Guardo le stelle in questa, fredda notte di gennaio. E non mi venite a dire che non ho niente di meglio da fare. Perché vi direi che avete, perfettamente, ragione. Cosa dovrei fare? Assumere l’ennesima dose di disinformazione televisiva? Ordinare il nuovo modello di mascherina ffp2 o come diavolo si chiama? Farmi una doccia con l’amuchina (e vi garantisco che vi è davvero chi lo fa)?
Meglio guardare le stelle no? E ascoltare. Ascoltare nel silenzio assoluto della notte, in questa città morta. Ascoltare una musica
E la mentre corre al Silmarillion. Al suo, straordinario, incipit. La creazione dell’universo secondo gli Elfi.
Iluvatar. L’Uno, crea una sinfonia. E gli Ainür la intonano. È la loro Musica. La musica della creazione. Ma uno di loro, Melkor, per orgoglio, volutamente, stona. Canta fuori del coro. Diverrà Morgoth. Il primo Signore Oscuro.
E il suo stonare genera disarmonia contraddizioni. Dissonanze. Il Male, insomma.
Ma Iluvatar crea una nuova armonia. Più vasta. Che contiene e armonizza anche la dissonanza di Melkor.
Forse la Musica che Beethoven sentì prima di morire. La Decima Sinfonia. La Sinfonia assoluta.