“Beato te, che hai ritrovato una dimensione a misura d’uomo…” mi dice il mio amico S. al telefono “Qui la città diventa sempre peggio. I quartieri, buoni o cattivi, borghesi o popolari, fuori dal centro non sono che dormitori. Anzi, peggio…”
In che senso peggio? gli chiedo. E immagino che stia scuotendo la testa, come sua abitudine…
“Vedi. Ormai la gente non torna più a casa la sera. Perché, col tempo, abbiamo perso il senso della casa. È solo un luogo per dormire. Provvisorio. Di fatto ci trascorriamo meno tempo possibile. Perché anche quando non lavoriamo, andiamo fuori. Altrove. Locali. Gite. Vacanze. La casa è qualcosa di secondario. Non la viviamo. E non la sentiamo come nostra”, un attimo di silenzio… poi
“Di fatto siamo degli strani nomadi. Dei nomadi inconsapevoli…”
S. ha sempre delle trovate interessanti. Un modo di pensare tutto suo, forse. Però…pensa… Con la sua testa. Ed è originale…
Nomadi inconsapevoli. La città, sempre più grande, caotica, priva di personalità di fatto sradica gli uomini che la abitano. Non vi è più alcun legame con i luoghi. Con la terra. Solo esistenze, faticose, che si trascinano per vie, strade, rese interminabili. Infinite, a causa dell’affollamento. Del traffico. Di fatto, l’abitante di una grande metropoli trascorrere gran parte della sua vita per la strada. Nel traffico. In auto o sui mezzi pubblici.
Ricordo che un amico turco una volta mi disse
“Qui a Roma, quando esco nel traffico non so mai quando arriverò.. A Istanbul, la mia città, non so se arriverò…”
İstanbul è quattro, forse cinque volte Roma. E, al mondo, c’è di molto peggio. Provate a leggere “i detective selvaggi” di Roberto Bolaño. La Città del Messico che descrive non è una…città. È un cosmo a sé stante. Un immane, affollato, deserto per le cui strade i personaggi vagano senza riposo. E senza alcuna meta definitiva.
I nomadi, quelli veri, che ancora sopravvivono in alcuni angoli desertici del mondo, che so…i Tuareg, i Kampa tibetani, i Masai….erano e sono sostanzialmente uomini liberi. Che vivono sulla terra senza avere alcun senso di proprietà. Senza vincoli. In un rapporto armonico…
Lo so…probabilmente è un’immagine troppo idealizzata. Che non tiene in conto la durezza della vita nomadica. E che mi deriva dalle appassionate letture giovanili di Bruce Chatwin. Il cantore della, cosiddetta, “alternativa nomade”.
Tuttavia, lasciando perdere suggestioni letterarie e romantiche, i nomadi veri sono sempre stati consapevoli della loro vita. E, oserei dire, della loro scelta.
Un amico kazako, un diplomatico, uomo colto, abituato alle grandi città, mi disse una volta
“Sai, io sono veramente felice solo quando posso andare a cavallo nella steppa. E addormentarmi guardando il cielo. Come i miei antenati…”.
Il nomadismo urbano, di cui mi parlava S., è l’esatto opposto. È una condizione di alienazione inconsapevole. Non è un diverso rapporto con la Terra. Un diverso Nòmos. È la perdita di ogni legame. Di ogni relazione con l’ambiente.
Il nomade urbano è ridotto, sempre più, ad una sorta di parassita. Che trascina l’esistenza per la strada. Mangia, sempre più spesso, fuori. E sempre più in fretta. Fast Food. Il simbolo di una perdita del senso del focolare. E del gusto. Simbolo di solitudine. Dorme, questo sì, quasi sempre nello stesso luogo. Ove, però, giunge sfinito. E che gli risulta ogni giorno più estraneo. Le nostre case ci sono, ormai, aliene. Il Beduino ha un rapporto di intimità profondo con la sua tenda. Noi, al contrario, tra le mura dei nostri nostri appartamenti, sempre più piccoli, ci sentiamo costretti. Prigionieri.
Case sempre più piccole. Flaiano, con il suo umorismo acido, scrisse una pièce teatrale sulla nascita del nuovo quartiere di Talenti a Roma, negli anni ’60. E sulle case, piccole come loculi. Erano, più o meno, sui 100/120 mq. Oggi sembrano sontuosi palazzi.
E poi le politiche sempre più tendono a negare la proprietà della casa. Che un sistema fiscale oppressivo rende ormai solo un onere. Mutui, Imu, Tari, Condominio…Non riesci più a sentirti padrone di casa tua. Perché, di fatto, non lo sei. Ne sei stato espropriato.
Il nomade è signore nella sua tenda. E si sente a casa sotto il cielo illuminato dalle stelle.
A noi sta venendo tolto tutto. Non abbiamo quasi più un luogo in ci possiamo sentire, davvero, a casa.