
Conosco sufficientemente bene le tecniche di comunicazione per sapere che parlare male di un libro e di un autore è un boomerang pubblicitario: il silenzio sarebbe il comportamento più opportuno.
Ma con questo scritto non ho potuto fare a meno di cedere, pur sollecitando a non acquistarlo. Ho trovato semplicemente squallido il linguaggio tenuto dall’autore – un agente della Digos, tanto per sottolinearne la funzione – nel descrivere gli avvenimenti di Genova durante il G8. Parlo di espressione letteraria, senza entrare nel merito tecnico di quanto è accaduto; quindi, dei sentimenti espressi nel raccontare i fatti con la griglia della sua impostazione ideologica.
Un servitore dello Stato che ritiene Luca Casarini un leader sempre più autorevole, che parla dei <<ragazzi dei centri sociali>>, che critica i colleghi manganellatori mentre lui si defila dagli scontri, che sottolinea come <<nei servizi di ordine pubblico, alcune volte bisognerebbe essere disarmati>>, che mette sullo stesso piano la responsabilità di Carlo Giuliani e del carabiniere Mario Placanica, che di Giuliani dice <<morì un giovane che stava protestando contro il mondo>>, che afferma <<non è credibile che potesse imprimere a quell’estintore una forza tale da ammazzare il carabiniere>>. Insomma, molto critico verso i comportamenti dello Stato e dei suoi difensori, verso la paura diffusa e l’enfasi sulla violenza piuttosto che sul pacifismo: lo dice lui – agente della Digos – che quando si trova davanti ai Black Blok, cagato di paura per poter essere identificato, <<afferro un bastone e con un colpo secco infrango il finestrino del lato guida>> di una macchina parcheggiata, poi <<alzo in aria il pugno e grido come non ho mai gridato in vita mia. Anche loro alzano il pugno, anche loro gridano. Per un attimo potremo essere fratelli>>.

Egregio Prestigiacomo, anch’io mi sono scontrato da giovane: ho assaggiato le vostre manganellate, quelle dei carabinieri colleghi di mio papà, non quelle delle Fiamme Gialle, perché la Guardia di Finanza non veniva attivata all’epoca per l’ordine pubblico.
Io, noi, con altro stile, non andavamo a frignare: lo Stato si difendeva da chi lo contrastava. Un definito gioco delle parti. Io, noi, potevamo creare disordine; voi, loro, eravate nello stesso posto per sedarlo. Io, noi, abbiamo conosciuto uomini in divisa che picchiavano semplicemente con il senso del dovere e della responsabilità dei quali col tempo siamo diventati amici.
Questo libro spiega una visione dello Stato e della funzione soggettiva che non solo è distorta, ma pericolosamente falsata. Però, una soddisfazione personale che posso sicuramente ampliare al mio ambiente la trovo a pagina 43. Lei, comunista, chiede di entrare nella Digos, e incontra don Peppino – in arte Giuseppe Impallomeni, il massimo dirigente iscritto alla P2, il quale lo accoglie volentieri affermando: <<“ho molta ammirazione per i comunisti, nonostante sia fondamentalmente democristiano. Al liceo frequentavo gli ambienti di Comunione e Liberazione. Le idee non sono pregiudizi, nessuna”. Lo vidi fermarsi a pensare, poi aggiunse: “Tranne una: il fascismo”>>. Io non sono stato comunista, non sono stato democristiano, non sono stato piduista, non sono stato ciellino, non sono stato un agente della Digos. Indovina, indovinello: cosa sono stato e sono?